Personalmente, credo che uno dei terreni su cui si giocherà una partita importante (partita già iniziata,d’altronde), sia quello della costruzione collettiva, di quella cosa a cui adesso diamo vari nomi (fra tutti, crowdsourcing), ma che sottintende la collaborazione massiva (spesso anonima, sempre volontaria) fra utenti/persone, in rete.
Come dice Suriowecki, la magia della collaborazione accade quando vi sono quattro fattori fondamentali (indipendenza, diversità d’opinione, aggregazione, decentramento) e non è facile da far accadere. Ma a volte ci siamo riusciti. La nuova fisica di Internet spezza (fra le altre cose) varie forme di ostacoli spazio-temporali: possiamo collaborare, in teoria, con chiunque, in qualsiasi parte del mondo, in maniera simultanea e non. Tutto ciò che non è possibile nel nostro “normale” mondo atomico.
L’ubiquità del digitale ha permesso, per la prima volta nella storia umana, forme di “collaborazione estrema”: tutto l’internet è una costruzione sociale, in qualche modo.
Alcuni di questi progetti, poi, sono costruzione collettiva ancora più estrema: in Wikipedia, per esempio, abbiamo una forma collettiva, simultanea, multilingue, volontaria di scrittura di un’enciclopedia.
Esistono sì altri progetti altrettanto grandi, ma in cui la costruzione del progetto è meno consapevole: gli user-generated video in Youtube, la foto su Flickr e Facebook e Instagram, la blogosfera, la twittosfera, la socialcososfera sono tutte forme di collaborazione, ma in maniera più blanda e incosciente. Rimangono costruzioni collettive, risultato di una coordinazione dal basso, ma inconsapevole.
Senza stare a fare pe(d|s)anti tassonomie, credo sia dunque corretto ed importante affermare questa differenza, che è un differenza fra network sociali e network collaborativi [1]. Nei social network (prendetene uno a caso) spesso vi è (abbiamo appena detto) una “costruzione collettiva inconsapevole”, che avviene quando il mio contributo personale (e spesso destinato ad un gruppo ristretto di amici, o anche ad un pubblico ignoto) si va a sommare ad altri contributi (sempre user generated), ma il cui fine primario non è la collaborazione: cioè, la costruzione di un tutto organico è quasi un effetto collaterale, non il primo obiettivo (Shirky chiama un concetto simile frozen sharing). L’appassionato carica video su Youtube per sè, per i propri amici, non per costruire il più grande archivio video mai visto. Su Twitter scrivo per i miei follower, sul blog per me e i miei amici e i miei lettori: il fine è quasi sempre personale o ristretto, non è (quasi mai) la volontà di fare qualcosa come progetto unico e integrato. Al contrario, progetti come Wikipedia nascono e sono sempre costruzioni collettive e consapevoli. Questo non vuol dire che il wikipediano è sempre altruista e il blogger egoista (anzi): ognuno ha le proprie motivazioni e sceglie i mezzi che preferisce per esprimersi, ma la differenza fra comunicazione (che genera collateralmente un contenuto sociale) e collaborazione rimane lampante.
Ecco.
Personalmente credo che i progetti più interessanti (che come società abbiamo appena iniziato a conoscere (e creare)), siano proprio i secondi.
Abilitare le persone a gesti costruttivi e utili e piccoli e divertenti (click) è forse una delle sfide più grandi che come umanità possiamo intraprendere, permettendo di sfruttare un potenziale latente (morale, etico, cognitivo, di tempo, di competenze) che non è ancora mai stato sfruttato (Clay Shirky, Surplus cognitivo).
In questo momento, la tecnologia ci offre i primi rudimentali strumenti di condivisione e collaborazione davvero globali che il mondo abbia mai visto.
Questo tipo di collaborazione estrema (o massiva), se così vogliamo chiamarla, ha, in questi anni, una parola chiave, che è la parola wiki.
Wiki e collaborazione sono, alla fine dei conti, quasi sinonimi: un wiki è un sito modificabile da tutti i suoi utenti, in (quasi) tutte le sue pagine.
Se un progetto è basato su un wiki, avrà la necessità di avere/trovare/mantenere i suoi utenti, e i suoi utenti avranno la necessità di coordinarsi (in qualche modo) per far funzionare il progetto, e questo porterà alla creazione di una comunità (comunità di pratica, dunque, secondo la definizione di Wenger)(ma anche comunità di interessi, secondo la definizione di Henri e Pudelko). Una comunità più o meno aperta, più o meno larga, più o meno omogenea, ma comunque una comunità che si identificherà con il lavoro e l’obiettivo del progetto.
La prima e più grande forma democratica di collaborazione massiva [2] è stata Wikipedia, e siamo ancora ben lontani da capire dove arriverà.
La stessa Wikimedia Foundation, dato il successo iniziale, ha tentato di ripetersi rivolgendosi ad altri progetti che non fossero scrivere un’enciclopedia: è così che nascono Commons (repository di immagini e file liberi)[3], Wikisource (biblioteca digitale wiki e laboratorio di trascrizione e rilettura), Wikiquote, ecc.
I progetti di Zooniverse (Galaxy Zoo, Planethunters, Ancient lives, ecc.) e FoldIt hanno compreso la fondamentale importanza creare infrastrutture che rendano semplice e divertente fare qualcosa di utile: migliaia di utenti possono dunque aiutare gli scienziati a classificare galassie, piegare proteine, leggere geroglifici, scoprire pianeti (ma anche leggere parole (recaptcha), o scoprire melanomi).
Nielsen (Reinventing Discovery, Princeton University Press)(che è un libro splendido) utilizza questi progetti come esempi per mostrare come la citizen science sia la nuova frontiera per unire gli amatori agli esperti nella conquista dell’ignoto, coordinando la passione ed la computazione umana dei primi alle competenze dei secondi. La costruzione della nuova scienza passa per l’accesso aperto di dati, letteratura e risorse, ma anche delle competenze e intelligenza e tempo libero di tutti (scienziati e non).
Non so voi, ma io sono molto eccitato per quello che verrà. Bisogna solo farlo accadere.
Note
[1] Definizioni mie (non faccio il pedante, non fatelo voi).
[2] Qui taglio la testa ad una mandria di tori. Sto parlando di collaborazione massiva e volontaria e consapevole. Ci sono altri progetti del genere: l’intero movimento open source (es. Linux) può essere inteso (e lo è e deve esserlo), come ecosistema di progetti collaborativi, ma non è propriamente democratico (nel senso che la soglia minima per partecipare è molto alta)(cioè, bisogna saper programmare). Va tutto bene, ma qui voglio parlare di un livello successivo di collaborazione, in cui la soglia minima è molto più bassa.
[3] Commons è in realtà, a mio personalissimo parere, un divertente ibrido fra una forma di user generated content (le immagini, caricate a milioni da migliaia di persone) e un progetto comunitario. Le sue difficoltà sono varie (pensiamo solo che è l’unico progetto Wikimedia ad essere unico e multilingue, quando tutti gli altri hanno versioni linguistiche proprie). La parte comunitaria prevede la scrittura di linee guida, il controllo del materiale, la correzione dei metadati, la creazione di template e strumenti e la categorizzazione. Ma facciamo che oggi lo riteniamo un progetto comunitario e basta.
PS: tutti i libri citati sono prestati volentieri dal sottoscritto (se avete un Kindle però)(aubreymcfato chiocciola gmail punto com).
Toh, mi hai fatto ricordare termini di tallinniana memoria… communities of practice, Wenger, Henri/Pudelko… :)
Ma ho bisogno di dire una cosa che mi ronza sempre nelle orecchie quando si parla di questi argomenti, che so che ti sono molto cari e che conosci bene. Ho sempre la paura che ci sia il rischio di una semplificazione e di un fraintendimento, per cui si crede a una conoscenza *di tutti*, accessibile *a tutti*, a un progetto aperto *a tutti* e così via. Però ci si dimentica che anche questi progetti necessitano di un’organizzazione e di ruoli che per loro natura e necessità sono esclusivi. Per cui ad esempio anche Wikipedia ha degli amministratori che possono fare cose diverse da altri utenti. Questo ruolo viene assegnato in base alla disponibilità e all’impegno, e non a meriti o titoli, è chiaro, però sempre un ruolo ben preciso è. Insomma, spesso si confonde la mancanza di gerarchie con la mancanza di organizzazione, e questo, specialmente nei dibattiti, nelle conversazioni e nella pubblicità, rischia di fare male.
(Perché io credo che ci sia sempre una struttura anche quando sembra di no: in un mio vecchio post , seguito a una conversazione con il nostro amico Getaneh, dicevo: “parliamo in prosa senza saperlo”)
Inoltre, e soprattutto, è delicata la nota: “non è propriamente democratico (nel senso che la soglia minima per partecipare è molto alta)(cioè, bisogna saper programmare)”. Trovo sempre rischioso guardare alla “soglia” delle cose, perché le soglie possono essere abbassate e alzate all’infinito. Se la soglia della “democrazia” è quella di saper programmare, la soglia della “democrazia” è anche quella di saper leggere, scrivere, argomentare, editare, documentarsi. Insomma un’alfabetizzazione che è presupposto di ogni democrazia ma che non è scontata in ogni democrazia. In fondo ci sono requisiti “ovvi” e imprescindibili per ogni cosa – la soglia per qualificarsi alle olimpiadi, la soglia per entrare all’università, la soglia per bere-guidare-votare (in quest’ordine!). E la scienza non è democratica :)
Tu che vivi questi fenomeni da dentro, non ti sei mai imbattuto in questi intoppi?
Infine condivido l’entusiasmo finale (al massimo con un 1% di perplessità in più). D’altra parte sono convinto che il WWW sia una rivoluzione pari a quella di Gutenberg, e forse i suoi effetti dirompenti stanno comparendo proprio ora in questa costruzione collettiva di cui parli. Insomma, viva il web, ma forse non abbiamo ancora visto niente! :) E credo che per i professionisti dell’informazione come noi, questi siano tempi drammatici ma eccitanti fino all’incontinenza.
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Secondo me socialverso suona meglio di “socialcososfera” (e, per esempio, il tumbleverso è in avanza rispetto alla blogosfera http://xkcd.com/1043/)
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Vero, ma era una battuta (per me soltanto) dato che spesso su Friendfeed si usa socialcosi.
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