L’Amico Geniale

David Foster Wallace, dieci anni dopo

Dieci anni fa*, il 12 settembre 2008, ero nella mia cameretta nello studentato di Kansleren, a Oslo, nel quartiere a maggioranza arabico-pachistana di Toyen. Erano i primi giorni di una nuovissima avventura, un master in biblioteche digitali trovato dopo una soffertissima laurea in matematica, trovato per caso e agognato e infine scelto e applicato, in inglese, quando di inglese ne sapevo pochissimo e ogni nuovo documento da firmare era un concentrato di ansia e terrore. Ero arrivato da circa tre settimane, e il giorno della partenza lo ricorderò sempre come uno dei più brutti della mia vita, con una morosa lontana in Palestina, con la mia famiglia che quasi tutta mi aveva accompagnato a Orio al Serio in macchina, io e le mie pesanti valigie, il mio pesante cuore gonfio perché era la prima volta che partivo per così tanto tempo, in terra gelida e straniera, e avevo le lacrime agli occhi abbracciando mio padre e i miei fratellini che erano ancora piccoli, e preso quell’aereo maledetto partii per Oslo Torp, come al solito menzognero aeroporto Ryanar distante in realtà due ore di corriera da Oslo centro, e la prima cosa che feci a Torp fu uscire dalle porte automatiche e vomitare in un cespuglio, perché era l’estate della mia meningite (virale), virus Toscana, da un bastardo pappatacio dell’isola d’Elba che mi regalò qualche giorno in ospedale e memorabilissimi mal di testa, e la mia prima e unica spinale, spero unica per sempre, assieme ad un’acuta percezione del concetto di “proporzionalità diretta”, in quel caso fra velocità dell’aspirazione del liquido cerebrale e l’intensità del mal di testa consequenziale; quindi a Torp vomitai nel cespuglio e salii sul pullman che in due ore di oblio mi portò alla stazione di Oslo, dove l’anima piissima di Erik, musicista autoctono conosciuto a Node, mi venne a prendere per aiutarmi a trovare studentato e chiavi annesse, e ricordo nebulosamente un mal di testa fotonico — per anni ogni decollo e atterraggio mi trapanava il cervello nell’esatto centro della fronte — ricordo l’unica volta che presi la metropolitana a Oslo (costava tipo 5 euro), ricordo che non vomitai lì, in mezzo a tutti, solo perché era una bella giornata e vedere il sole e sentire l’aria fresca norvegese in fondo al tunnel fecero rinvenire i miei sensi un decimo di secondo prima che i miei succhi gastrici si riversassero sulle mie scarpe e sulle quadratissime piastrelle colorate, e su porzioni di scarpe un po’ mie e un po’ di Erik; e arrivammo allo studentato, prendemmo le nostre chiavi, salimmo al terzo piano, entrammo in una camera spoglia, che non aveva niente di niente, né lenzuola né cuscino né materasso, ed era sabato e non potevo farci niente, e dato che non ne potevo già più salutai Erik (leggevo nei suoi occhi anche una certa preoccupazione, la mia faccia doveva essere tremenda), lo salutai e chiusi la porta, preso dallo sconforto ma ancora lucido pensai solo che essendo sabato non avrei dormito in un letto con materasso o cuscino o lenzuola ma dovevo trovare qualcosa da mangiare anche per il giorno dopo, e mi trascinai nel negozio pachistano sottocasa a prendere qualcosa, e mai dimenticherò il pacchetto da nove, pietosissime tortillas pagato sette euro sette, o il ragazzo che aiutava a mettere la spesa dentro il sacchetto che aveva un inglese migliore del mio; e mi trascinai nuovamente su al terzo piano, buttai il mio costosissimo bottino di carboidrati sulla scrivania (quella c’era), mi sedetti sulla nuda rete del letto e piansi, piansi lacrime amarissime, piansi come erano anni che non piangevo, e piangendo mi addormentai.

Da quel momento le cose migliorarono molto. Oslo si rivelò molto più ospitale di quello che avevo temuto, il mio inglese migliorava, il corso di digital documents mi piaceva moltissimo, il mal di testa era passato; per due, tre settimane mi sembrò di aver trovato il mio posto nel mondo, soprattutto dopo matematica.
Lessi della morte di David Foster Wallace in quel momento di felicità, e nonostante non avessi mai letto una sua parola ne fui molto addolorato. C’era già in giro la voce del genio, del “genio del nostro tempo”, e mi sembrava di aver perso qualcosa anche se non l’avevo mai avuto.
Ho iniziato a leggere Wallace (o DFW, come si dice fra noi autoeletti ministri di culto, noi che sappiamo che non si chiama Foster Wallace ma Wallace, e Foster Wallace è shibboleth per i non iniziati, plebaglia volgare che non ha ancora affrontato il monte analogo di Infinite Jest, per dire, magari ridicolmente ferma allo splendido ma colpevolmente famoso Una cosa divertente che non farò mai più, sciocchi) molto dopo, l’ho iniziato a leggere dopo, un po’ perché l’avevo sempre voluto fare ma anche perché era l’autore preferito di Aaron Swartz, e il drittone di Aaron per DFW era diventato anche il mio, per transitività. Come Aaron, mi sono fermato quasi esclusivamente alla nonfiction, che ho letto più o meno tutta: Considera l’aragosta, Tennis, tv, trigonometria…, Una cosa divertente che non farò mai più, Tutto e di più, ma anche l’intervista Come diventare sé stessi e la biografia di D.T. Max. La fiction no, non ho letto più o meno niente: tranne, ed è eccezione meritevole, Infinite Jest.
Quello che amo nella sua nonfiction (lo sguardo acutissimo, il sismografo mentale che registra ogni sbalzo di tensione, la capacità di astrarre e tornare al particolare con una velocità impressionante) lo detesto nella sua narrativa, ma lì sono io, non amo i nordamericani della seconda parte del novecento, de gustibus.
DFW non ha mai avuto la purezza formale di un Gadda, o l’invenzione linguistica di Joyce: ma compensava con una sensibilità più aperta, più sincera, oserei dire più “oscena”, smarmellata sulla pagina, come un processo terapeutico, come se la logorrea ipercerebrale fosse l’unica cosa che dava da mangiare al suo demone.
DFW, più di tutti, obbediva al “Guarda a tutt’occhi, guarda” con cui Perec aveva aperto La vita, istruzioni per l’uso, la citazione del Michele Strogoff di Jules Verne.
E oso ancora: credo che il fatto che DFW piaccia così tanto al maschio occidentale iperscolarizzato (di cui anche io sono umile ma valido specimen) è che David (David amore, David caro) si permette di soffriresulla pagina, quasi senza filtro, di soffrire attraverso le parole, di far soffrire tutti i suoi personaggi, di far sanguinare i pensieri.
David soffre e tu soffri con lui: per i maschietti, duole dirlo, questa è ancora una novità.

David che doveva parlare di crociere e invece parlava di morte.
David che era capace di parlare di tutto, di scrivere cose dolcissime e cose di una violenza inaudita.
David che ha scritto le parole definitive — ma troppe e troppo smarmellate in un romanzo di mille pagine, quindi incitabili — sulla Droga/Dipendenza/Intrattenimento, che sia indifferentemente da sostanze chimiche o da televisione.
C’è da piangere a pensare ai saggi che non leggeremo mai su Netflix, sul binge watching, sulla natura neurochimica dei social network.
Piangiamo dunque DFW per egoismo, come Dante piangerebbe Virgilio che muore all’inizio dell’inferno, come un’Arianna mangiata dal Minotauro con il gomitolo ancora in mano.
Lui ce l’avrebbe fatta, ci diciamo. Lui avrebbe saputo.
David Foster Wallace, L’Amico Geniale, Il Fratello Maggiore che tutti avremmo voluto avere. David Foster Wallace il Jinchūriki.
Il demone che, addomesticato, ci ha dato Infinite Jest, è lo stesso demone che rompendo le sbarre ha chiuso per sempre con una zampata le palpebre su quello sguardo che tanto ci manca.
DFW si appese alla cintura nel suo garage. Anche Aaron si appese alla cintura, e non riesco a convincermi che non ci abbia pensato.
Ciao DFW, adesso puoi dormire.

*Ho scritto questo pezzo su Medium nel 2018, lo riposto qui.

Gita all’antro del Corchia

Resoconto che ho scritto per la gita del GSE al Corchia, la copio qui perché ne avevo voglia.

Sabato 15 e domenica 16 marzo doppia uscita del Gruppo Speleo Emiliano all’Antro del Corchia, con la cosiddetta “traversata classica” il primo giorno ed esplorazione del ramo dei Giglio il secondo. 

Gita importante per il gruppo, dato che l’ultimo giro non fu certo felice – quasi 25 ore in grotta, con tanto di notte insonne – e abbiamo il compito di riallineare quella sfortuna. Il Corchia è uno dei complessi carsici più vasti d’Italia, con oltre 70 chilometri di percorso attualmente scoperti – e vanta una storia secolare di esplorazioni. Vale la pena ritentare.

Presenti due coppie di padre e figlio, i modenesi Mesini e gli aostani Venturini, ed entrambi i figli si chiamavano Nicolò. A ruota i pavullesi Michael e Giovanni, Milena da Città di Castello, Remo da Bologna e Fabio ed Andrea da Modena.

Ritrovo dai Mesini alle 6.45, qualche minuto di fisiologico ritardo – Fabio dopo i bagordi della notte precedente continua a essere convinto di dover andare al CAI, ma è l’unico – e per le 7.20 si è in macchina verso il Corchia. Viaggio tranquillo in autostrada, direttamente fino all’entrata turistica del Corchia, dove la prima macchina arriva e ci si inizia a preparare. Subito dopo i pavullesi, arrivati prima di tutti e fermatisi a Levigliani per la colazione. Ci si veste, ed appena pronti inizia a piovere: decidiamo dunque di iniziare l’avvicinamento, con tanto di kway e poncho per chi ce l’ha, mentre i Mesini, Remo e Milena, arrivati mezz’ora dopo, devono purtroppo fare tutto sotto la pioggia. Chi più chi meno, nessuno entrerà davvero asciutto.

L’avvicinamento è faticoso ma non troppo, anche se la pioggia certo non aiuta. Interessante comunque il panorama e i resti, quasi da archeologia industriale, delle vecchie case dei minatori, oramai nere e sfondate, cupissime sullo sfondo immacolato delle montagne sventrate di marmo.

Arrivati alla cava, intravediamo l’ingresso della grotta sopra una pietraia, di un bianco accecante nonostante la pioggia e lo scuro del cielo: la famosa buca d’Eolo si presenta degna del proprio nome, data la corrente fortissima che spira da dentro la montagna verso il fuori.

Appena entrati, ci siamo imbragati in una larga e comoda sala, e nell’attesa del secondo gruppo, e capitanati da nonno Ivo, un gruppetto di noi prosegue dritto a esplorare un ramo alternativo, che dopo alcune belle gallerie e salette finisce in un sifoncino in cui nessuno di noi ha davvero voglia di immergersi. Si iniziano a intravedere sulle pareti le firme – a nerofumo, a penna, a matita – di vari gruppi speleo, una costante di tutta la grotta. Le firme più antiche che abbiamo visto erano di fine Ottocento. Siamo di fronte alla storia della speleologia e ci verrà ricordato più volte.

Tornati indietro ritroviamo Luigi, e iniziamo a seguire Nicolò, l’aostano, che per tutta la gita è stato il primo del gruppo e ha armato tutti i salti. Dopo un primo saltino si inizia una discesa fino al canyon: la grotta ci era stata promessa asciutta, ma le ingentissime piogge di queste settimane non lasciano scampo, e saranno ben pochi i tratti completamente privi d’acqua: fra torrentelli, laghetti e cascatelle, ogni angolo della montagna suda l’acqua che percola dalla cima e di fatti uscirà da ovunque. Usciremo quasi più bagnati di come siamo entrati. 

La prima parte è piuttosto facile: gallerie, salti – di cui uno ragguardevole da 20 metri, ma soprattutto vari saltini, fessure, a volte concrezionate, soprattutto con i cosiddetti “cavolfiori”. Il “canyon”, oltre che splendido, è sicuramente molto divertente, si percorre a gambe divaricate in opposizione con le mani, oppure su uno dei due versanti quando abbastanza largo.

Il secondo gruppetto – Andrea, Fabio, Michael – di ferma nella sala dove l’anno scorso il gruppo sbagliò strada, aspettando Ivo e Milena per indicargli la strada e chiedendo loro di fare lo stesso con quelli dietro. Nel frattempo, primo spuntino. Notiamo anche alcuni fogli plastificati, a indicare le diverse vie e il nome della camera in cui siamo. Assieme alle firme, alle frecce, ai catarifrangenti e ai tanti omini di pietra, uno dei segni della grande storia collettiva di questo posto incredibile. Presa la via giusta, arriviamo finalmente ad uno dei pezzi grossi della traversata, ovvero il Pozzacchione: un salto nel vuoto di ben 51 metri. Lì troviamo Nicolò intento ad armare per la discesa. Qualche rallentamento nell’armo fa sì che il gruppo si ricompatti tutto – arrivano Luigi, Nicolò Mesini, Remo, e iniziamo finalmente a discendere. Purtroppo la sala è molto fredda, noi siamo bagnati e la pausa intirizzisce un po’ tutti. Ma uno alla volta ci caliamo nel vuoto, in un’unica discesa senza frazionamenti.

Subito dopo, il Salone Maranesi, veramente impressionante nella sua maestosità, con circa 2000 m² di superficie. Il Corchia sta tenendo pienamente fede alla sua fama, la vastità di questi vuoti è senza precedenti.

Si prosegue fino ad arrivare agli “Scivoli”, una delle parti più divertenti e belle, per cui scendendo in sicurezza si aprono ampi spazi ben concrezionati e molto suggestivi. Lo scivolo finale, però, è infingardo e si affaccia nel vuoto, direttamente sul pozzo delle Lame, per cui bisogna scavalcare una lama di roccia e discendere il pozzo dall’altra parte, per una ventina di metri.

Ancora avanti fra sale e saloni, abissi che non esploreremo che si aprono di fianco a noi, saltini vari e cascate che giungono da chissà dove, arriviamo al Pozzo del Portello, forse il più affascinante, per cui da una cengia si apre l’abisso di 25 metri e si discende con le rocce che piano piano si aprono a fianco. Visto dal fondo, con la luce che lentamente illumina gli spazi enormi, è veramente bellissimo.

Siamo quasi arrivati alla zona turistica, ma il labirinto continua. Sembra davvero che non ci sia fine allo spazio che continua ad spalancarsi sulla roccia, ai vuoti che si mangiano la montagna, in tutte le direzioni. 

L’ultimo saltino e siamo sulle rampe. Cerchiamo di ricompattare il gruppo, e nel frattempo tutti percorriamo a piedi l’anello turistico, che fatto in solitaria e silenzio è davvero meraviglioso. Chi aveva già visto questa parte da turista la ritrova ancora più grandiosa, con concrezioni davvero incredibili per tipo, per numero e per dimensioni. 

Appena tutti hanno finito il giro, si prosegue verso l’ingresso della grotta turistica, purtroppo molto faticoso perché siamo già stanchi e si tratta di centinaia di gradini tutti in salita. Praticamente di fronte al portone, risaliamo la pietraia e svoltiamo a sinistra, verso l’uscita dei Pompieri, mentre il giorno dopo faremo – entrando, quindi al contrario – l’ingresso di destra detto dei Serpenti. Siamo stanchi e l’ultima parte è purtroppo tutta in salita e molto bagnata. Ci sono meandri da risalire con i sacchi delle corde, fino ad arrivare a veri e propri scivoli che si sono trasformati in cascate con la pioggia. Si sentono un po’ di imprecazioni e risate isteriche, ma è tutto sotto controllo. Risaliamo controcorrente, chi con croll e maniglia e chi, con le ultime forze, direttamente arrampicando a mano. Questi ultimi probabilmente fanno pure meno fatica. Lentamente, arriviamo alla fine, dove l’ultimo cunicolo ha solo una corda annodata che aiuta a salire in sicurezza di fianco un pozzo che sembra riparato ma è invece piuttosto pericoloso. Ma ce la facciamo tutti, e con i gomiti e le ginocchia riusciamo uno a uno a conquistarci l’uscita fuori dalla montagna.

Sopra noi nessuna stella, ma buio pesto e pioggia battente. 

I primi a uscire sono riusciti a sbagliare il sentiero e ritrovare quello giusto, aiutando gli ultimi a non fare errori. Il sentierino fuori dall’ingresso è strettissimo e bagnato e non bisogna cadere giù, ma è questione di qualche decina di metri: poi riprende il sentiero normale e, nonostante l’acqua, il buio e la fatica dopo otto ore di grotta, raggiungiamo tutti le macchine. 

Ci si cambia al freddo sotto l’entrata turistica per ripararci un po’ dalla pioggia, ma almeno i vestiti sono asciutti, e il miraggio della cena ci ridona le ultime forze.

Scendiamo la strada con le macchine fra nebbia e pioggia cercando di non prendere le curve per la dritta, ma arriviamo alla Pollaccia stanchi, affamati ma felici. Scopriamo con gioia che dormiremo al caldo con materassini gonfiabili, e la cena inizia e finisce in allegria.

Dopo una dormita sacrosanta che per alcuni è stata più comoda di altri – purtroppo gli aostani hanno preso un materassone che sembrava comodissimo ma si è rivelato particolarmente sgonfio e scomodo – e alcuni tentativi di secessione, il gruppo decide di aderire ai piani e tentare la gita del Ramo de Giglio. Gita defatigante, dicono. 

Milena dopo aver dormito ha la schiena bloccata e torna a casa, i pavullesi Michael e Giovanni hanno preso la via della montagna la sera prima dopo cena, nonno Ivo decide di recuperare il sonno perduto direttamente sul sedile posteriore della macchina di Fabio.

Il gruppo rimasto – i Mesini, Nicolò, Fabio, Andrea – si incammina per il sentiero del ritorno della sera prima, ma fermandosi all’ingresso dei Serpenti. Sempre molto vento – la montagna cerca sempre di soffiarci via – e una fessurina iniziale, ma i saltini iniziali sono relativamente facili e scopriamo con piacere che sono non solo già armati ma pure in doppia corda. Scendiamo il primo salto – scomodo per via di una strettoia – e anche poco dopo il secondo. Capiamo perché si chiama “dei Serpenti”, ma per il momento nessuna vera difficoltà. Ci ritroviamo dunque sulla sommità della pietraia che dà sull’inizio della grotta turistica, come il giorno prima, e iniziamo a scendere le rampe con Remo che ci guida leggendo un resoconto di un’esplorazione precedente. 

Ma qui iniziano gli inghippi: la descrizione è molto chiara e ritroviamo fino ad un certo punto tutti i riferimenti, ma Luigi, che trent’anni fa c’era già stato, non riconosce nulla. Scavalchiamo le rampe al primo tunnel sulla destra, scendiamo un canapone annodato e camminiamo lungo una frana, dove una “invitante” tunnel a sinistra chiude subito e il secondo, sempre sulla sinistra si incunea, fra pareti strette e concrezionate, sotto la parte turistica. Non arriviamo in fondo perché il giro continuerebbe ma secondo tutti non è la strada giusta.

Allora ritorniamo nella via principale che però si affaccia su un abisso che sembra molto più profondo dei 20 metri del pozzo Susanna, quello che secondo tutti – resoconto e Mesini – dovremmo trovare adesso. Da qui di fatto perdiamo ogni riferimento, e sotto la guida di Nicolò proviamo a esplorare. Evitiamo l’abisso profondo perché non abbiamo corda sufficiente, ma sulla sinistra si sale e si sbuca, dopo un traverso, in un salone enorme che si affaccia su un altro salone appena più piccolo. Dal soffitto altissimo scrosciano cascate a sprazzi, e bisogna stare attenti perché sotto di noi, in questa sala franata, si aprono altri buchi e pozzi – se chiusi o meno non lo sappiamo. La seconda sala si apre su un altro abisso profondissimo e armato, ma sopra di noi vediamo una piccola terrazza che ci invita con una corda che pende. Nicolò Venturini sale e sparisce per un po’, mentre il gruppo si ricompatta del tutto. L’aver perso i punti di riferimento ha un po’ scoraggiato tutti: non sappiamo dove siamo né dove stiamo andando, siamo solo tranquilli perché sappiamo che l’uscita è poco distante. Andrea e Luigi tornano indietro per provare a rinfrescare la memoria di Luigi e confermare o meno di essere nel posto giusto, Remo e Fabio ritornano nel primo salone per vedere se non ci siamo persi qualche segno, Nicolò Mesini attende l’altro Nicolò disperso da qualche parte un livello sopra di noi.

Luigi e Andrea però ritornano sino alle rampe e non trovano nulla. Non vedendo gli altri tornare, rifanno nuovamente la strada di prima all’indietro per capire dove sono tutti, e urlando attraverso il salone, nonostante il frastuono dell’acqua, capiscono che sono tutti sono andati avanti. Quindi torniamo al secondo salone, sotto la terrazza, dove Nicolò Venturini ci conferma che sono tutti saliti a vedere quello che secondo lui è il ramo del Giglio, ma che non si rivelerà tale.

La salita è relativamente veloce, e ci si infila in salette e cunicoli splendidamente concrezionati, con stalattiti enormi e piccolissime, fino ad arrivare al pezzo forte, una galleria candida e pienamente concrezionata, che sembra quasi un ghiacciaio. Siamo tutti lì, decidiamo che è davvero una degna conclusione della nostra gita e che, ramo del Giglio o meno che sia, la fatica non è stata vana. Iniziamo dunque il ritorno, ripercorrendo per l’ennesima volta il percorso fino alle rampe – ormai è strada conosciuta per tutti, senza difficoltà, e purtroppo, per la seconda volta in due giorni, la rampa finale di scale in salita è massacrante.

Si risale la pietraia, Nicolò – Mesini, questa volta – conduce con Andrea subito a ruota e gli altri un po’ indietro. Il pozzo dei Serpenti asciutto non è ma è doppiamente armato quindi agevola il rientro. La fessurina iniziale ci strappa qualche imprecazione – oramai quasi un rito scaramantico appena prima di uscire, e questa volta usciamo con il giorno e addirittura il sole che vince sulle nuvole, a sprazzi. Nicolò e Andrea iniziano la discesa, e sono solo le due e un quarto. Ci si cambia al sole – ma sempre al freddo – e dato che sono le tre si decide di tentare il ristorante Vallechiara per un panino veloce. 

Ovviamente il ristorante è aperto e quindi altro che panino: litro di vino, tagliatelle ai funghi – ottime – gnocchi alle noci, dolci vari (me li ricordo tutti: millefoglie alla crema con fragole per Nicolò Venturini e Remo, panna cotta al Mojito per i due patriarchi della compagnia, vin santo con cantucci per Andrea), cinque caffè di cui uno corretto grappa e uno deca. 

Soddisfatti, rifocillati e molto stanchi, ci salutiamo e partiamo per Modena. 

Finita la gita al Corchia, viva il Corchia.

È letteralmente impossibile descrivere, a posteriori, lo smarrimento e la meraviglia che questi vuoti generano, con l’accumularsi e accavallarsi di livelli, pozzi, abissi, camere, sale grandiose e cunicoli minuscoli che si annidano, conosciuti o meno, nelle viscere di questa montagna.

Il Corchia si è dimostrato dunque un’esperienza difficile da riproporre a parole, ma è stato capace di confermare la fama che da più di un secolo lo pone al centro dei sogni della speleologia italiana ed europea.

Il paradiso preumano

Nello splendido capitolo finale de “L’anello di Re Salomone”, intitolato “Canicola”, Konrad Lorenz confessava di come gran parte del suo successo scientifico e accademico derivasse, curiosamente, dalla pigrizia. Possedeva, a suo dire, il “dono inestimabile di poter completamente arrestare i processi mentali superiori, mantenendosi in uno stato di perfetto benessere”. Così d’estate amava fare passeggiate con il proprio cane, farsi una nuotata in un ramo secondario del Danubio, e poi stendersi sulla riva, sotto la canicola, come un “coccodrillo al sole”. Solo così riusciva ad osservare gli animali nel loro ambiente naturale: per lunghissime ore, senza far null’altro. “Animale fra animali”, si sentiva in pace, accettato da tutti. È facile immaginarselo così, costume e pancia all’aria, per mattine e pomeriggi interi, a sonnecchiare, osservare intorno a sé. Semplicemente essere, stare. In un “nirvana animalesco”, scriveva, in un “paradiso preumano”.

Ho letto queste pagine tanti anni fa, ma mi sono sempre rimaste dentro: c’è qualcosa, soprattutto in quell’aggettivo – preumano – che non mi ha mai lasciato. Era un suggerimento, un appiglio: un’intuizione dell’esistenza di dimensioni sconosciute, quasi inaccessibili. Quasi.

Un anno esatto fa è nata Matilde, la nostra secondogenita. Nome scelto per ragioni canossiane per sua madre, dahliane per me: la mia prima eroina, il mio primo libro preferito.

Al contrario di Tommaso, è stato un parto veloce e senza complicazioni, che è il meglio che può capitare, e ha introdotto settimane praticamente perfette, fatate. Ora quasi dimenticate, ma so che sono accadute.

Ci siamo rifugiati nel nido del reparto ostetrico prima e di casa poi. E Matilde è stata perfetta, titto nanna cacca, come da manuale, in serena ciclicità. È una fase meravigliosamente vegetale: quando non si dorme si mangia, quando non si mangia si dorme.

Tommaso, il nostro primogenito, la guardava e scopriva per la prima volta la propria dolcezza, imparando una delicatezza da bimbo grande, un cuore da fratello maggiore.

Alessandra allattava, ritrasformata nuovamente nel supereroe che conoscevo. Quando riposava, io vedevo un samurai senza armatura, a dormire il sonno dei giusti e dei guerrieri.

E io mi sono ritrovato, per la seconda volta, neogenitore, affrontando quel periodo magico con Matilde addosso, spiaggiata sulla pancia. Eccolo, dunque, ritrovato, il paradiso preumano di cui parlava Lorenz.

Di notte o di giorno, mattina presto o primo pomeriggio o sera. Sul letto, sulla poltrona, con la fascia, con o senza maglietta, io e Matilde stavamo addosso l’una all’altra. Io la zattera nell’oceano, lei la naufraga che dorme. Io l’isola, lei Robinson.

Io ero morbido come un cuscino di piume, caldo come un caminetto d’inverno, alto come una torre su una scogliera; il mio petto vasto come praterie, sicuro come un castello.

Lei stava lì sopra, con le mani in alto, completamente arresa, totalmente, inesorabilmente vulnerabile. È uno strano paradosso che la sua massima vulnerabilità coincida con il mio desiderio totalizzante di protezione: è il suo potere su di me. Adorabile come solo i bambini appena nati sanno essere, di una tenerezza che raggiunge zone abissali del cervello, che prende più il corpo che il cervello, più l’addome che il cuore. C’è un verbo greco usato spesso nei vangeli: σπλαγχνίζομαι, un muoversi di viscere, una compassione di intestini.

È sempre bello ritornare mammiferi in questo modo. Lo scoprii già con Tommaso: se la gestazione è cosa da mamme, l’esogestazione è cosa da papà. Le mamme hanno la tetta, (tetta latte, tetta nanna, tetta casa, Tetta Tutto); i papà hanno il petto, la pancia, le braccia, la schiena. Noi non allattiamo, ma possiamo tenere, abbracciare, portare. La tengo lì sulla mia pancia, fuori ma con la stessa finalità: stare qui insieme, essere qui insieme.

Pensavo spesso in quelle settimane che, nella loro semplicità, azioni così semplici siano un punto fermo nello spaziotempo: se c’è una cosa di cui non potrò mai pentirmi, neanche quando sarò vecchio e prossimo alla morte, è di aver tenuto mia figlia neonata decine di ore addosso. Sono ore giustificate, come diceva San Paolo, ore degne di essere giudicate da qualsiasi dio. Ore che non ho sbagliato. Ore che tuttora non sbaglio.

Appoggiati e incastrati esattamente come due pezzi di Lego, spalmati l’uno all’altro come pane e nutella, in un’abbraccio senza braccia, Matilde mi insegnava a stare nel paradiso preumano: senza dolori, senza paura.

Dopo qualche mese, il nostro abbraccio si è evoluto. Lei è più lunga e pesante, decisamente più sveglia, si trasforma di giorno in giorno in una bambina vera, come Pinocchio.

Abbarbicata su di me come un koala su un eucalipto, o appollaiata sul braccio come un pappagallo con il suo pirata, o seduta sulle mie gambe come il piccolo buddha su trono, o il cangurino nel suo marsupio, o una scimmietta aggrappa alla madre. Dopo un anno, in questa trasformazione da animaletto a umano – diventando una bambina vera, come Pinocchio – io e Matilde dormiamo insieme nel lettone, tutta la notte. Ci sdraiamo, e lei sa dove mettersi, sa dove incastrare la testa, con il braccino sopra il mio petto. Mi stupisco sempre di questo gesto perfetto.

La prima epifania, cinque anni fa, fu di rendermi conto che questa nuova, travolgente vulnerabilità era una benedizione: volevo voler bene in questo modo da molto tempo, volevo essere così aperto, volevo prendermi cura.

Il mio abbraccio era castello e fortezza, e io proteggevo il mio tesoro. Credo che sia uno di quei sentimenti che discrimina l’adolescenza da un “adultità” vera e propria.

Dopo qualche anno, non è cambiato: prendersi cura è un sentimento meraviglioso, uno dei pochi che dona un senso alla vita. Mi è chiarissimo come sia una fortuna poter rendere giustizia a questa fame biologica che urla in ogni mia cellula. È così facile sentirsi travolti dall’amore per una creaturina del genere.

Allo stesso tempo, a questo secondo giro di giostra, mi è più evidente quanto il mio abbraccio non sia differente da quello di Matilde: cerco sicurezza in lei quanto lei la cerca in me. Cerco casa e nido, mi rifugio nel suo collo per le stesse ragioni in cui lo fa lei. Entrambi siamo aggrappati, entrambi ci sosteniamo, nel reciproco abbraccio, sospesi.

Buon compleanno Tilli.

Biblioteca

Ho scritto un libretto, anche se sopra non c’è il mio nome: Biblioteca, allegato del Corriere della Sera nella collana Scuola di scrittura della Scuola Holden.

Ci ho messo varie cose su cui eternamente ritorno: Borges, La biblioeca di Babele, Calasso e il suo “Come ordinare una biblioteca”, la biblioteca Warburg e la regola del buon vicino, la serendipity, Wikipedia, Ranganathan e le cinque leggi.

Secondo me è carino, è piaciuto anche alla mia nonna (ma forse questo non fa testo). Il libretto è uscito a dicembre, e si può ordinare, di carta, a questo indirizzo.

UPDATE: dato che di carta pare finito, qui c’è il PDF.

Cosa vuol dire essere intelligenti?

Questo articolo è stato pubblicato nel numero di dicembre 2023 di Finzioni.

Le tecnologie sono sempre uno specchio di ciò che siamo. Sono sempre state protesi – delle nostre gambe, delle nostre braccia, dei nostri sensi, del nostro cervello. Quindi mezzi per ottenere un fine, che sono i nostri bisogni e desideri: le auto incarnano il nostro bisogno di movimento, i libri il bisogno di capire gli altri, i social il bisogno di connetterci. Quando una tecnologia ha successo, è perché risponde o amplifica o sfrutta un nostro desiderio profondo, qualcosa che moltissime persone di diversa geografia, cultura, genere, religione condividono. Che ne siamo consapevoli poco importa. 

Sarebbe bello ripercorrere la storia della cultura attraverso la storia delle tecnologie. Lette così, di sbieco, diventano un modo di conoscerci, un catalogo di quello che crediamo di noi stessi.   

Trovo che questo sia questo, al momento, l’aspetto più interessante di ChatGPT, e di tutti i suoi vari e simili cugini. Più ci confrontiamo con l’intelligenza artificiale, più abbiamo domande sull’intelligenza umana. 

Si dice da sempre che la conoscenza sia una sfera che si espande in un universo di ignoto: ne consegue, necessariamente, che la sfera sarà sempre più a contatto con le tenebre. Più sappiamo, più sapremo di non sapere. Più sarà immediata la nostra consapevolezza del nostro essere limitati. 

Proprio in questo senso è importante l’intelligenza artificiale: ci restituisce il nostro grado di ignoranza su noi stessi.

Cosa vuol dire essere intelligenti? Cosa vuol dire essere coscienti?

Sono domande eterne, probabilmente non dissimili da quello che agitavano gli insondabili pensieri di chi dipinse animali e uomini sul fondo delle grotte di Lascaux o di Altamira, decine di migliaia di anni fa. Dubbi che, a distanze di tempo incolmabili dal pensiero, rimangono inscalfibili. 

Cosa sono io, cosa sei tu, ipocrita animale, mon semblable, mon frère. Perché ci siamo entrambi, e cosa vuol dire questo esserci. 

Dalla carne al silicio, l’avvento del computer, da metà del Novecento, ha alimentato enormemente questo fuoco. 

Eravamo convinti – lo siamo tuttora – che la coscienza fosse il “problema difficile”. Come fa la coscienza a emergere dalla materia? 

Se non si invoca una risposta religiosa – un Dio che sfiora con l’indice il simmetrico indice di un uomo; una scimmia che tocca un monolite nero e alieno – la risposta non ce l’abbiamo. L’intelligenza emerge dalla materia. È una cosa che accade. 

Come l’irripetibile conformazione di un cristallo di neve, come una cattedrale eretta nel deserto dalle termiti, la coscienza emerge, complessa, dall’interazione di unità più semplici. Data abbastanza complessità, la coscienza emerge. Accade. Noi accadiamo. Shit happens. 

Ho usato le parole “intelligenza” e “coscienza” come termini intercambiabili, ma forse non dovrei. 

Secondo lo storico Yuvan Noah Harari, intelligenza e coscienza vanno considerate separatamente: intelligenza è l’abilità di risolvere problemi, di perseguire obiettivi. 

Intelligenza e coscienza sono talmente intrecciate fra loro che non sappiamo dove finisca l’una e inizi quell’altra. Tuttora continuiamo a confonderle. Gli ultimi decenni di ricerca scientifica e tecnologica in realtà ci aiutano piano a piano a discriminare. Fare ordine. 

Abbiamo creduto per molto tempo che l’intelligenza fosse il risultato ultimo dell’evoluzione umana, e si attribuisse, negli esseri umani, alla corteccia cerebrale, lo strato biologicamente più recente del nostro cervello. Abbiamo creduto quindi che lì risiedesse la coscienza. Ma probabilmente non è così. 

Coscienza = corpo, intelligenza = calcolo

Una serie di neuroscienziati – fra gli altri, Jan Panksepp, Antonio Damasio, Mark Solms – ci insegna da decenni che la coscienza potrebbe trovarsi in un luogo altro, evoluzionisticamente più remoto. 

Figli di un illuminismo un po’ miope, tendiamo a sottovalutare il potere delle nostre sensazioni e dei nostri sentimenti, e tendiamo a privilegiare i nostri pensieri: invece, siamo riusciti a riprodurre artificialmente solo gli ultimi, ma non i primi. 

La coscienza, pare, necessita di un corpo. Un corpo che abiti lo spazio e il tempo.

Non c’è coscienza senza corpo, col suo insieme di sensori che captano attraverso vista, udito, tatto, olfatto, gusto. Nel regno animale questi sensi si immillano, vedendo e percependo dimensioni del reale che noi limitati esseri umani nemmeno immaginiamo: lo spettro della luce dall’infrarosso all’ultravioletto, l’ecolocalizzazione, la percezione delle più tenui tracce chimiche con l’olfatto, con le antenne, con la pelle. Ci sono universi in una zolla di terra che ci rimarranno per sempre sconosciuti. 

Dopo le sensazioni, ci sono i sentimenti. Coscienza è capacità di sentire: dolore e piacere, amore e odio. 

Dall’altro lato, abbiamo capito che gran parte di quello che noi riteniamo intelligenza è una qualche forma di computazione. 

Dagli inizi del secolo scorso – da Alan Turing, da John Von Neumann – il calcolo è diventato il paradigma silente e ubiquo del mondo. Più andiamo avanti, più non c’è nulla che il calcolo non conquisti con le sue orde di processori e processi infinitesimali. Continuiamo incessantemente a inventare nuove parole per contare il numero di calcoli che le nostre macchine sono capaci di fare al secondo. Miliardi di miliardi di miliardi di miliardi: mega, giga, tera, peta, exa, zetta, yotta, ronna, quetta. Viviamo sotto la dittatura del calcolo, come dice Paolo Zellini.  

I barbari

Come è accaduto molte volte nella storia dell’umanità, le frange più tradizionali si ritraggono, riescono a mantenere sempre meno terreno: i barbari inesorabilmente avanzano. 

Nel Seicento, non si conosceva la natura del calore: si presupponeva esistesse una sostanza, chiamata “flogisto”, che lo trasportasse. Ma con l’avvento della scienza moderna, fondata sulla sperimentazione, questa speculazione filosofica era sempre più fragile. Non collimava con i dati sperimentali. Con rammarico di molti – ci si affeziona sempre alle idee, soprattutto quando sono presenti da molto tempo – si abbandonò l’idea “romantica” di una sostanza che dava calore, si abbracciò l’idea barbara e dissacratoria che la temperatura dipendesse dal movimento delle molecole. Accadde lo stesso con l’”etere”. Lo stesso accadde – e tuttora accade – con il concetto di Dio: la stessa Chiesa Cattolica accetta di buon grado (?) l’esistenza della teoria dell’evoluzione, o della genetica, o della psichiatria, anche solo della metereologia: tutti ambiti in cui il ruolo di un Dio onnipotente ha progressivamente perso terreno, ma su cui fino a pochi secoli fa si fondavano scismi, si combattevano battaglie, si bruciavano persone. 

È un processo che ritorna eternamente nella storia dell’uomo: c’è qualcosa che riteniamo sacro e vero. Una verità che saputa da sempre. Arrivano i barbari da fuori a dirci che non è così, che esistono altri dei. È una guerra, e spesso la perdiamo. 

La sensazione è che siamo nel pieno di uno di questi momenti storici. I barbari sono alle porte, armati di GPU. Sul loro vessillo sventola una matrice di 0 e 1, il viso insondabile del Calcolatore. Sono venuti a distruggere ciò che abbiamo di più caro, l’ultima cosa che ci era rimasta dopo la morte di Dio: l’eccezionalità umana. La vostra intelligenza – dicono – non è che un insieme di processi di algebra lineare. Un computo parallelo di miliardi di neuroni. Siete reti neurali non troppo dissimili da quelle che interrogate nel vostro telefonino. 

Non avevamo computer abbastanza potenti per dimostrarlo venti anni fa, ma ora ce li abbiamo. Non c’è rivolo della creatività umana che non saremo in grado di riprodurre. Non c’è espressione umana che non saremo in grado di simulare.

Intelligence is in the eye of the beholder

Ora, le cose non accadono nel vuoto. Le relazione che abbiamo con l’intelligenza artificiale è una relazione culturale, che coinvolge la nostra psicologia, la nostra fisiologia. È un aspetto fondamentale che solitamente sottostimiamo. 

Il problema con ChatGPT e compagni è proprio ciò che li rende incredibili: il loro essere quasi umani, ma non del tutto. Esiste un’uncanny valley anche del linguaggio, evidentemente. 

Come dice il filosofo Roberto Casati, sono quasi–testi. Sembrano testi “veri” ma non lo sono. 

Ma cosa vuol dire? Il fatto che ChatGPT e compagni siamo così simili a quella che abbiamo sempre riconosciuto come intelligenza non fa altro che buttare tutto l’onere delle prova sul lettore. È un po’ come è accaduto nel passaggio dalle enciclopedie tradizionali a Wikipedia: una volta c’era l’autorità, e nel bene e nel male la si prendeva per buona; poi si è passati ad un’autorevolezza che però doveva essere conquistata. Il principio di autorità è epistemologicamente sbagliato (nessuno ha sempre ragione) ma cognitivamente è molto semplice: come in ambito militare gli ordini non vanno discussi ma eseguiti, se mi fido ciecamente di un’istituzione (la Treccani, il New York Times) ci credo e basta. Diventa una questione di fede. E la fede è molto meno stancante dello scetticismo. 

Con Wikipedia – con il web in generale – si è già operata una rivoluzione, come dalla fisica newtoniana e deterministica a quella quantistica e probabilistica: tutte le volte che il testo viene letto e interpretato, scopriamo se il gatto di Schrödinger è vivo o morto. 

In quel momento, il nostro senso critico decide se il testo è buono abbastanza o meno. Ma tutto il senso, tutto il peso è retto da quell’”abbastanza”. Abbastanza buono per quel contesto, per quella singola istanza nello spazio e nel tempo in cui il testo e il suo lettore si incontrano. Il lettore diventa – dovrebbe diventare – completamente responsabile. È abbastanza buono per me, adesso.

Da un punto di vista cognitivo, questo è faticoso: leggere un messaggio di ChatGPT in questo senso è come ascoltare quell’amico logorroico che si inventa mille storie: non sai mai cosa è vero e cosa no. ChatGPT è questo: un fuffarolo professionista. Il più bravo e veloce di tutti.

Paradossalmente, il fatto che le cose siano vere il 90 o 95% del tempo non aiuta. La paura di quel restante 5% di fuffa è sempre lì, presente. Siamo noi lettori a essere responsabili di accogliere o meno quel testo come “buono abbastanza”.

Un testo è un testo è un testo

Ma siamo proprio sicuri che i testi generati automaticamente da ChatGPT siano “ontologicamente” differenti dai testi umani? A volte sembra solo una distinzione religiosa. Un testo è un testo è un testo. 

Certo, è un generatore di significanti, non significati: un generatore di parole, non di concetti. 

Quello che diventa interessante e dirimente è che – spesso, non sempre – questo basti.

La differenza fra fenomeno e noumeno, fra parola e verità sottesa, fra senso e sintassi è una distanza che abbiamo sempre ritenuto assoluta e incommensurabile, ma non è così.

Uno dei miei esempi preferiti è il calcio mercato, croce e delizia delle redazioni sportive di tutto il mondo. Ora, quanto sono davvero umani, autentici quegli articoli, e quanto invece scritti semplicemente per riempire una pagina dal “devo riempire una pagina sulla squadra X”? Che agency hanno? Che distanza c’è fra un testo scritto solo su una voce di corridoio e pubblicato per riempire uno spazio bianco, rispetto al meccanismo fuffogeno di ChatGPT? 

Non so se vi ricordate le interrogazioni alle superiori, quando, pur di non fare scena muta, con l’adrenalina che ottenebrava la mente, si rispescava a casaccio nella propria memoria per imbastire un discorso che – da fuori – fosse abbastanza coerente per strappare una sufficienza. A volte funzionava, a volte no. La nostra preparazione era, in gran parte, nell’occhio (a volte nel pregiudizio) della prof. Ecco, con ChatGPT è lo stesso.   

È una “macchina per la generazione di linguaggio”, attraverso meccanismi probabilistici. Completano le frasi calcolando quale parola sia più probabile oltre un’altra serie di parole. 

Il punto è che questo, incredibilmente, è molto più potente di quello che ci aspettavamo. 

I giochi sono una cosa seria

Non è la prima volta che accade. Gli esseri umani non sono molto bravi a concepire o stimare la potenza di sistemi formalizzati (se non proprio sistemi formali). 

Pensiamo al gioco degli scacchi. Una scacchiera larga 8 x 8, una manciata di pedoni e di pezzi. Eppure, un gioco che ha appassionato miliardi di persone in migliaia di anni, a tutti gli effetti inesauribile: il numero di posizioni possibili su una scacchiera è più grande del numero di particelle presenti nell’universo. Il numero di partite possibili è infinitamente più grande.

La matematica di inizio Novecento subì la sua grande crisi (al pari della musica, della pittura, della fisica) quando Gödel intuì che un sistema semplice come l’aritmetica (i numeri naturali e le quattro operazioni fondamentali) era complesso e potente abbastanza da essere incompleto, cioè da prevedere dentro di sè affermazioni che sono “vere” ma non dimostrabili. 

La suggestione gödeliana ha poi influenzato tutto il secolo successivo, dall’arte alla scienza, ma ci ammonisce con una legge, ovviamente non dimostrabile: i sistemi che interagiscono con se stessi danno luogo a meraviglie inaspettate.
Una rete neurale che si manda segnali elettrici è potente abbastanza da ingannare un lettore umano. 

L’IA come amica

Quindi, dobbiamo temere che l’intelligenza artificiale spazzi via tutto ciò che conosciamo? Impossibile dirlo, ma c’è almeno un settore in cui la superintelligenza artificiale ha superato gli umani da molto tempo, e le cose vanno piuttosto bene. 

Nel 1996, la sfida Garry Kasparov vs il computer Deep Blue emozionò il mondo intero. Era una vera sfida “uomo contro macchina”, carne contro silicio. Kasparov vinse nel 1996, ma perse nel 1997. Su entrambi gli eventi si scrisse moltissimo, si girano documentari, si parlò nei programmi televisivi per mesi. Era “la fine della storia”.  

Da allora, anno dopo anni, i computer hanno completamente surclassato gli umani, tanto che l’IA, negli scacchi, è cosa naturale e quotidiana. 

Ed ecco il fatto incredibile: non interessa a nessuno. Ci si convive tranquillamente. L’intelligenza artificiale, dopo aver vinto, è diventata uno strumento utilissima per tutti: giocatori di ogni livello la usano per allenarsi, durante i tornei le analisi vengono svolte in tempo reale, per cui lo spettatore sa sempre quale sarebbe la mossa migliore secondo l’algoritmo, al contrario del giocatore davanti alla scacchiera. Non solo l’IA ha migliorato la nostra percezione del gioco, ma si può dire che lo ha reso anche più spettacolare. Come se lo spoiler non rovinasse davvero la visione di un film. Come se il viaggio fosse l’importante, e la meta non poi così tanto. 

Una cosa che non facciamo quasi mai, abbiamo capito col tempo, è guardare le partite che l’IA gioca contro se stessa. Non ci interessa. Continuiamo a voler guardare esseri umani, capaci di sbagliare. 

Commodity

Ancora, anche con le immagini generate dal’IA sta succedendo qualcosa di interessante. 

Al momento – ma è molto presto, tecnologicamente – è piuttosto facile capire quando un’immagine è stata fatta artificialmente o naturalmente. La luce è spesso la stessa, a volte è tutto troppo perfetto, dettagliato. Il primo giorno le troviamo incredibili, bellissime, rivoluzionarie. Ma dopo una settimana siamo già stanchi: sono tutte uguali. Da pezzi unici e irripetibili diventano genere, commodity, materia prima senza differenze qualitative. 

Di fatto, l’AI spesso ci annoia molto in fretta. Torniamo in fretta alle nostre faccende umane.
È questo dunque il destino dell’IA: not with a bang but with a wimper? Impossibile dirlo, anzi: diffidare sempre di apocalittici e integrati. Ogni settore professionale, ogni segmento della società avrà le proprie peculiarissime vittorie e sconfitte. L’unica certezza è che la battaglia ci sarà.