Biblioteca

Ho scritto un libretto, anche se sopra non c’è il mio nome: Biblioteca, allegato del Corriere della Sera nella collana Scuola di scrittura della Scuola Holden.

Ci ho messo varie cose su cui eternamente ritorno: Borges, La biblioeca di Babele, Calasso e il suo “Come ordinare una biblioteca”, la biblioteca Warburg e la regola del buon vicino, la serendipity, Wikipedia, Ranganathan e le cinque leggi.

Secondo me è carino, è piaciuto anche alla mia nonna (ma forse questo non fa testo). Il libretto è uscito a dicembre, e si può ordinare, di carta, a questo indirizzo. Nel caso, però, regalo volentieri il PDF a chi me lo chiederà (“aubreymcfato”, su gmail).

Cosa vuol dire essere intelligenti?

Questo articolo è stato pubblicato nel numero di dicembre 2023 di Finzioni.

Le tecnologie sono sempre uno specchio di ciò che siamo. Sono sempre state protesi – delle nostre gambe, delle nostre braccia, dei nostri sensi, del nostro cervello. Quindi mezzi per ottenere un fine, che sono i nostri bisogni e desideri: le auto incarnano il nostro bisogno di movimento, i libri il bisogno di capire gli altri, i social il bisogno di connetterci. Quando una tecnologia ha successo, è perché risponde o amplifica o sfrutta un nostro desiderio profondo, qualcosa che moltissime persone di diversa geografia, cultura, genere, religione condividono. Che ne siamo consapevoli poco importa. 

Sarebbe bello ripercorrere la storia della cultura attraverso la storia delle tecnologie. Lette così, di sbieco, diventano un modo di conoscerci, un catalogo di quello che crediamo di noi stessi.   

Trovo che questo sia questo, al momento, l’aspetto più interessante di ChatGPT, e di tutti i suoi vari e simili cugini. Più ci confrontiamo con l’intelligenza artificiale, più abbiamo domande sull’intelligenza umana. 

Si dice da sempre che la conoscenza sia una sfera che si espande in un universo di ignoto: ne consegue, necessariamente, che la sfera sarà sempre più a contatto con le tenebre. Più sappiamo, più sapremo di non sapere. Più sarà immediata la nostra consapevolezza del nostro essere limitati. 

Proprio in questo senso è importante l’intelligenza artificiale: ci restituisce il nostro grado di ignoranza su noi stessi.

Cosa vuol dire essere intelligenti? Cosa vuol dire essere coscienti?

Sono domande eterne, probabilmente non dissimili da quello che agitavano gli insondabili pensieri di chi dipinse animali e uomini sul fondo delle grotte di Lascaux o di Altamira, decine di migliaia di anni fa. Dubbi che, a distanze di tempo incolmabili dal pensiero, rimangono inscalfibili. 

Cosa sono io, cosa sei tu, ipocrita animale, mon semblable, mon frère. Perché ci siamo entrambi, e cosa vuol dire questo esserci. 

Dalla carne al silicio, l’avvento del computer, da metà del Novecento, ha alimentato enormemente questo fuoco. 

Eravamo convinti – lo siamo tuttora – che la coscienza fosse il “problema difficile”. Come fa la coscienza a emergere dalla materia? 

Se non si invoca una risposta religiosa – un Dio che sfiora con l’indice il simmetrico indice di un uomo; una scimmia che tocca un monolite nero e alieno – la risposta non ce l’abbiamo. L’intelligenza emerge dalla materia. È una cosa che accade. 

Come l’irripetibile conformazione di un cristallo di neve, come una cattedrale eretta nel deserto dalle termiti, la coscienza emerge, complessa, dall’interazione di unità più semplici. Data abbastanza complessità, la coscienza emerge. Accade. Noi accadiamo. Shit happens. 

Ho usato le parole “intelligenza” e “coscienza” come termini intercambiabili, ma forse non dovrei. 

Secondo lo storico Yuvan Noah Harari, intelligenza e coscienza vanno considerate separatamente: intelligenza è l’abilità di risolvere problemi, di perseguire obiettivi. 

Intelligenza e coscienza sono talmente intrecciate fra loro che non sappiamo dove finisca l’una e inizi quell’altra. Tuttora continuiamo a confonderle. Gli ultimi decenni di ricerca scientifica e tecnologica in realtà ci aiutano piano a piano a discriminare. Fare ordine. 

Abbiamo creduto per molto tempo che l’intelligenza fosse il risultato ultimo dell’evoluzione umana, e si attribuisse, negli esseri umani, alla corteccia cerebrale, lo strato biologicamente più recente del nostro cervello. Abbiamo creduto quindi che lì risiedesse la coscienza. Ma probabilmente non è così. 

Coscienza = corpo, intelligenza = calcolo

Una serie di neuroscienziati – fra gli altri, Jan Panksepp, Antonio Damasio, Mark Solms – ci insegna da decenni che la coscienza potrebbe trovarsi in un luogo altro, evoluzionisticamente più remoto. 

Figli di un illuminismo un po’ miope, tendiamo a sottovalutare il potere delle nostre sensazioni e dei nostri sentimenti, e tendiamo a privilegiare i nostri pensieri: invece, siamo riusciti a riprodurre artificialmente solo gli ultimi, ma non i primi. 

La coscienza, pare, necessita di un corpo. Un corpo che abiti lo spazio e il tempo.

Non c’è coscienza senza corpo, col suo insieme di sensori che captano attraverso vista, udito, tatto, olfatto, gusto. Nel regno animale questi sensi si immillano, vedendo e percependo dimensioni del reale che noi limitati esseri umani nemmeno immaginiamo: lo spettro della luce dall’infrarosso all’ultravioletto, l’ecolocalizzazione, la percezione delle più tenui tracce chimiche con l’olfatto, con le antenne, con la pelle. Ci sono universi in una zolla di terra che ci rimarranno per sempre sconosciuti. 

Dopo le sensazioni, ci sono i sentimenti. Coscienza è capacità di sentire: dolore e piacere, amore e odio. 

Dall’altro lato, abbiamo capito che gran parte di quello che noi riteniamo intelligenza è una qualche forma di computazione. 

Dagli inizi del secolo scorso – da Alan Turing, da John Von Neumann – il calcolo è diventato il paradigma silente e ubiquo del mondo. Più andiamo avanti, più non c’è nulla che il calcolo non conquisti con le sue orde di processori e processi infinitesimali. Continuiamo incessantemente a inventare nuove parole per contare il numero di calcoli che le nostre macchine sono capaci di fare al secondo. Miliardi di miliardi di miliardi di miliardi: mega, giga, tera, peta, exa, zetta, yotta, ronna, quetta. Viviamo sotto la dittatura del calcolo, come dice Paolo Zellini.  

I barbari

Come è accaduto molte volte nella storia dell’umanità, le frange più tradizionali si ritraggono, riescono a mantenere sempre meno terreno: i barbari inesorabilmente avanzano. 

Nel Seicento, non si conosceva la natura del calore: si presupponeva esistesse una sostanza, chiamata “flogisto”, che lo trasportasse. Ma con l’avvento della scienza moderna, fondata sulla sperimentazione, questa speculazione filosofica era sempre più fragile. Non collimava con i dati sperimentali. Con rammarico di molti – ci si affeziona sempre alle idee, soprattutto quando sono presenti da molto tempo – si abbandonò l’idea “romantica” di una sostanza che dava calore, si abbracciò l’idea barbara e dissacratoria che la temperatura dipendesse dal movimento delle molecole. Accadde lo stesso con l’”etere”. Lo stesso accadde – e tuttora accade – con il concetto di Dio: la stessa Chiesa Cattolica accetta di buon grado (?) l’esistenza della teoria dell’evoluzione, o della genetica, o della psichiatria, anche solo della metereologia: tutti ambiti in cui il ruolo di un Dio onnipotente ha progressivamente perso terreno, ma su cui fino a pochi secoli fa si fondavano scismi, si combattevano battaglie, si bruciavano persone. 

È un processo che ritorna eternamente nella storia dell’uomo: c’è qualcosa che riteniamo sacro e vero. Una verità che saputa da sempre. Arrivano i barbari da fuori a dirci che non è così, che esistono altri dei. È una guerra, e spesso la perdiamo. 

La sensazione è che siamo nel pieno di uno di questi momenti storici. I barbari sono alle porte, armati di GPU. Sul loro vessillo sventola una matrice di 0 e 1, il viso insondabile del Calcolatore. Sono venuti a distruggere ciò che abbiamo di più caro, l’ultima cosa che ci era rimasta dopo la morte di Dio: l’eccezionalità umana. La vostra intelligenza – dicono – non è che un insieme di processi di algebra lineare. Un computo parallelo di miliardi di neuroni. Siete reti neurali non troppo dissimili da quelle che interrogate nel vostro telefonino. 

Non avevamo computer abbastanza potenti per dimostrarlo venti anni fa, ma ora ce li abbiamo. Non c’è rivolo della creatività umana che non saremo in grado di riprodurre. Non c’è espressione umana che non saremo in grado di simulare.

Intelligence is in the eye of the beholder

Ora, le cose non accadono nel vuoto. Le relazione che abbiamo con l’intelligenza artificiale è una relazione culturale, che coinvolge la nostra psicologia, la nostra fisiologia. È un aspetto fondamentale che solitamente sottostimiamo. 

Il problema con ChatGPT e compagni è proprio ciò che li rende incredibili: il loro essere quasi umani, ma non del tutto. Esiste un’uncanny valley anche del linguaggio, evidentemente. 

Come dice il filosofo Roberto Casati, sono quasi–testi. Sembrano testi “veri” ma non lo sono. 

Ma cosa vuol dire? Il fatto che ChatGPT e compagni siamo così simili a quella che abbiamo sempre riconosciuto come intelligenza non fa altro che buttare tutto l’onere delle prova sul lettore. È un po’ come è accaduto nel passaggio dalle enciclopedie tradizionali a Wikipedia: una volta c’era l’autorità, e nel bene e nel male la si prendeva per buona; poi si è passati ad un’autorevolezza che però doveva essere conquistata. Il principio di autorità è epistemologicamente sbagliato (nessuno ha sempre ragione) ma cognitivamente è molto semplice: come in ambito militare gli ordini non vanno discussi ma eseguiti, se mi fido ciecamente di un’istituzione (la Treccani, il New York Times) ci credo e basta. Diventa una questione di fede. E la fede è molto meno stancante dello scetticismo. 

Con Wikipedia – con il web in generale – si è già operata una rivoluzione, come dalla fisica newtoniana e deterministica a quella quantistica e probabilistica: tutte le volte che il testo viene letto e interpretato, scopriamo se il gatto di Schrödinger è vivo o morto. 

In quel momento, il nostro senso critico decide se il testo è buono abbastanza o meno. Ma tutto il senso, tutto il peso è retto da quell’”abbastanza”. Abbastanza buono per quel contesto, per quella singola istanza nello spazio e nel tempo in cui il testo e il suo lettore si incontrano. Il lettore diventa – dovrebbe diventare – completamente responsabile. È abbastanza buono per me, adesso.

Da un punto di vista cognitivo, questo è faticoso: leggere un messaggio di ChatGPT in questo senso è come ascoltare quell’amico logorroico che si inventa mille storie: non sai mai cosa è vero e cosa no. ChatGPT è questo: un fuffarolo professionista. Il più bravo e veloce di tutti.

Paradossalmente, il fatto che le cose siano vere il 90 o 95% del tempo non aiuta. La paura di quel restante 5% di fuffa è sempre lì, presente. Siamo noi lettori a essere responsabili di accogliere o meno quel testo come “buono abbastanza”.

Un testo è un testo è un testo

Ma siamo proprio sicuri che i testi generati automaticamente da ChatGPT siano “ontologicamente” differenti dai testi umani? A volte sembra solo una distinzione religiosa. Un testo è un testo è un testo. 

Certo, è un generatore di significanti, non significati: un generatore di parole, non di concetti. 

Quello che diventa interessante e dirimente è che – spesso, non sempre – questo basti.

La differenza fra fenomeno e noumeno, fra parola e verità sottesa, fra senso e sintassi è una distanza che abbiamo sempre ritenuto assoluta e incommensurabile, ma non è così.

Uno dei miei esempi preferiti è il calcio mercato, croce e delizia delle redazioni sportive di tutto il mondo. Ora, quanto sono davvero umani, autentici quegli articoli, e quanto invece scritti semplicemente per riempire una pagina dal “devo riempire una pagina sulla squadra X”? Che agency hanno? Che distanza c’è fra un testo scritto solo su una voce di corridoio e pubblicato per riempire uno spazio bianco, rispetto al meccanismo fuffogeno di ChatGPT? 

Non so se vi ricordate le interrogazioni alle superiori, quando, pur di non fare scena muta, con l’adrenalina che ottenebrava la mente, si rispescava a casaccio nella propria memoria per imbastire un discorso che – da fuori – fosse abbastanza coerente per strappare una sufficienza. A volte funzionava, a volte no. La nostra preparazione era, in gran parte, nell’occhio (a volte nel pregiudizio) della prof. Ecco, con ChatGPT è lo stesso.   

È una “macchina per la generazione di linguaggio”, attraverso meccanismi probabilistici. Completano le frasi calcolando quale parola sia più probabile oltre un’altra serie di parole. 

Il punto è che questo, incredibilmente, è molto più potente di quello che ci aspettavamo. 

I giochi sono una cosa seria

Non è la prima volta che accade. Gli esseri umani non sono molto bravi a concepire o stimare la potenza di sistemi formalizzati (se non proprio sistemi formali). 

Pensiamo al gioco degli scacchi. Una scacchiera larga 8 x 8, una manciata di pedoni e di pezzi. Eppure, un gioco che ha appassionato miliardi di persone in migliaia di anni, a tutti gli effetti inesauribile: il numero di posizioni possibili su una scacchiera è più grande del numero di particelle presenti nell’universo. Il numero di partite possibili è infinitamente più grande.

La matematica di inizio Novecento subì la sua grande crisi (al pari della musica, della pittura, della fisica) quando Gödel intuì che un sistema semplice come l’aritmetica (i numeri naturali e le quattro operazioni fondamentali) era complesso e potente abbastanza da essere incompleto, cioè da prevedere dentro di sè affermazioni che sono “vere” ma non dimostrabili. 

La suggestione gödeliana ha poi influenzato tutto il secolo successivo, dall’arte alla scienza, ma ci ammonisce con una legge, ovviamente non dimostrabile: i sistemi che interagiscono con se stessi danno luogo a meraviglie inaspettate.
Una rete neurale che si manda segnali elettrici è potente abbastanza da ingannare un lettore umano. 

L’IA come amica

Quindi, dobbiamo temere che l’intelligenza artificiale spazzi via tutto ciò che conosciamo? Impossibile dirlo, ma c’è almeno un settore in cui la superintelligenza artificiale ha superato gli umani da molto tempo, e le cose vanno piuttosto bene. 

Nel 1996, la sfida Garry Kasparov vs il computer Deep Blue emozionò il mondo intero. Era una vera sfida “uomo contro macchina”, carne contro silicio. Kasparov vinse nel 1996, ma perse nel 1997. Su entrambi gli eventi si scrisse moltissimo, si girano documentari, si parlò nei programmi televisivi per mesi. Era “la fine della storia”.  

Da allora, anno dopo anni, i computer hanno completamente surclassato gli umani, tanto che l’IA, negli scacchi, è cosa naturale e quotidiana. 

Ed ecco il fatto incredibile: non interessa a nessuno. Ci si convive tranquillamente. L’intelligenza artificiale, dopo aver vinto, è diventata uno strumento utilissima per tutti: giocatori di ogni livello la usano per allenarsi, durante i tornei le analisi vengono svolte in tempo reale, per cui lo spettatore sa sempre quale sarebbe la mossa migliore secondo l’algoritmo, al contrario del giocatore davanti alla scacchiera. Non solo l’IA ha migliorato la nostra percezione del gioco, ma si può dire che lo ha reso anche più spettacolare. Come se lo spoiler non rovinasse davvero la visione di un film. Come se il viaggio fosse l’importante, e la meta non poi così tanto. 

Una cosa che non facciamo quasi mai, abbiamo capito col tempo, è guardare le partite che l’IA gioca contro se stessa. Non ci interessa. Continuiamo a voler guardare esseri umani, capaci di sbagliare. 

Commodity

Ancora, anche con le immagini generate dal’IA sta succedendo qualcosa di interessante. 

Al momento – ma è molto presto, tecnologicamente – è piuttosto facile capire quando un’immagine è stata fatta artificialmente o naturalmente. La luce è spesso la stessa, a volte è tutto troppo perfetto, dettagliato. Il primo giorno le troviamo incredibili, bellissime, rivoluzionarie. Ma dopo una settimana siamo già stanchi: sono tutte uguali. Da pezzi unici e irripetibili diventano genere, commodity, materia prima senza differenze qualitative. 

Di fatto, l’AI spesso ci annoia molto in fretta. Torniamo in fretta alle nostre faccende umane.
È questo dunque il destino dell’IA: not with a bang but with a wimper? Impossibile dirlo, anzi: diffidare sempre di apocalittici e integrati. Ogni settore professionale, ogni segmento della società avrà le proprie peculiarissime vittorie e sconfitte. L’unica certezza è che la battaglia ci sarà.

Intrecci butleriani

Una versione più aggiornata di questo articolo è stata pubblicata su Quants Magazine.

Una delle mille invenzioni incredibili del Dune di Frank Herbert è sicuramente il “jihad butleriano“: la rivolta contro l’intelligenza artificiale, accaduta in un passato remoto rispetto a tutti gli eventi del libro (e del film). È il motivo per cui non ci sono computer, in Dune, ma ci sono i “mentat“, i calcolatori umani, mezzi mistici mezzi fogli excel.

Usare questa idea in un romanzo di fantascienza, nel 1965, è ovviamente geniale, ma non nasce nel vuoto: l’aggettivo “butleriano” è un omaggio a Samuel Butler, autore nel 1872 del romanzo Erewhon.

Erewhon è un’utopia distopica, un romanzo satirico di un “militante eterodosso” e ironico iconoclasta che lanciò i suoi strali contro ogni cosa, tradusse l’Iliade e l’Odissea, scrisse un romanzo autobiografico dal titolo perfetto, Così muore la carne.

Contemporaneo di Darwin, Butler fu prima affascinato dalla teoria dell’evoluzione per poi esserne – a ragione – terrorizzato. L’evoluzione darwiniana era una forza acefala, caotica, né senso. Senza mente creatrice.

Nel paese di Erewhon (“Nowhere” al contrario), le macchine sono state tutte distrutte, perché un pensatore di genio aveva intuito che ogni macchina porta in sé il germe di una macchina più potente. Di evoluzione in evoluzione, le macchine un giorno avrebbero comandato l’uomo, e per questo furono distrutte.

Per uno di quei casi divertenti, nel 1965, lo stesso anno di Dune, esce “Erewhon” per Adelphi, fra i primissimi libri pubblicati dalla casa editrice, nei Classici disegnati da Enzo Mari.

Non è sconsiderato ipotizzare che Erewhon fosse una lettura di Bobi Bazlen, e che lui avesse amato la immaginazione swiftiana dell’autore, ma avesse anche ritrovato in quei capitoli folgoranti in cui si descrivono le ragioni della rivolta contro le macchine – intitolati “Il libro delle macchine” – una vera “primavoltità”, come amava dire. La prima volta che un’idea veniva espressa in un libro.

L’idea che la tecnologia stessa custodisce dentro di sè il germe della propria evoluzione – e quindi, necessariamente, di un progresso che la porterà a superare i limiti umani, a diventare coscienza, vera “intelligenza artificiale” – diverrà poi un tema fondamentale del XX e del XXI secolo.

In maniera ovviamente diversa, io ne lessi da Kevin Kelly, Ray Kurzweil e Ted Kaczynski, matematico geniale “best known for other works”, con lo pseudonimo Unabomber.

In due libri il cui titolo è tutto un programma (Quello che vuole la tecnologia e L’inevitabile) Kelly tratta la tecnologia come se possedesse una propria forza, come se fosse figlia e connaturata all’essere umano come l’arte e la musica. “Technium“, la chiamava. Bombe a parte, Kelly affronta seriamente i testi di Kaczynski, autore che definire controverso è un eufemismo ma che sicuramente ha argomenti a volte incontrovertibili.

Sono certo – ma da ore cerco senza successo – di aver letto di Erewhon (e del suo seguito, Ritorno a Erewhon) da Roberto Calasso. Certamente Calasso ne scrisse il risvolto, dato che è la prima delle Cento lettere a uno sconosciuto, raccolta appunto di risvolti scrissi dall’autore-editore.

Chissà, forse i miei ricordi sono alterati e galeotto fu la sola quarta, con la frase sublimamente calassiana:

«Ma quel che forse colpirà di più il lettore d’oggi sarà la chiaroveggenza di Butler sul futuro di una civiltà tecnologica che è già diventato, per noi, presente».

Funny enough, Calasso sparla di Kelly ne L’impronta dell’editore, mentre ne L’innominabile attuale ce l’ha con Kurzweil.

Non è dato sapere cosa ne pensasse di Kaczynski.

Avvicinamenti

«Una spirituale devozione al mistero di ciò che esiste è stile per virtù propria, come dimostra l’ammirabile linguaggio, oggi in via di estinzione, dei contadini. Un poeta che ad ogni singola cosa dell’invisibile, prestasse l’identica misura di attenzione, così come l’entomologo s’industria a esprimere con precisione l’inesprimibile l’azzurro di un’ala di libellula, questi sarebbe il poeta assoluto».

«Posso immaginare un luminoso trattato sulla vita dei funghi o sui nodi del tappeto persiano, la descrizione accurata di un grande schermitore, una raccolta di lettere dal bel numero di parole in bel rapporto tra di loro».

Bruciarsi a vent’anni venerando la diade Jorge Luis Borges-Cristina Campo produsse alcune storture, all’epoca.

Fra tutte, la convinzione che bastasse una certa attenzione per accedere alle porte di un’Attenzione superiore, o – più prosaicamente – un atto estetico, un senso di piacere.

Ci ho messo anni a rendermi conto che fosse una cosa falsa: che non bastava volere che mi piacessero alcune cose perché queste cose effettivamente, poi, mi piacessero. Credo sia, d’altronde, l’esperienza di ogni adolescente, tipo ascoltare la musica che ascoltano i propri amici per poi rendersi conto, con un certo disappunto o sgomento o terrore, che quella musica non ci piace. Quando sei in cerca di identità vuoi cose che il tuo cuore spesso non vuole. Fare a pace con questa asimmetria è quello che chiamiamo diventare adulti.

Ma mentre ci sei in mezzo è tutto sempre confuso, complicato. Mi feriva profondamente rendermi conto che in realtà, mi annoiavo di fronte ai cherubini e serafini dalle sei ali dipinti sulle pareti dei santuari in Moldova, o dentro, di fronte alle icone russe. Seguendo Campo, o Dostoevskij, avrei voluto sentire una bellezza salvifica, giustificante. Avrei voluto epifanie, se non teofanie; ricevevo banalissimi silenzi in cui i miei occhi vagavano inquieti in cerca di un messaggio che non arrivava.

Sono sempre stato un pessimo utente di musei, frequento l’arte come frequento il vino: con una binaria suddivisione mi piace/non mi piace. Frequento diversamente la letteratura – o la birra se è per questo: lì ho educato le mie sensazioni immediate tramite un lungo apprendistato di mediazione. Ho letto – e bevuto – abbastanza da avere una mia esperienza, un’esperienza fisica e cognitiva. Conosco, quindi so giudicare. Questo apprendistato cognitivo ha raggiunto una massa critica tale da diventare educazione emotiva: mi emoziono perché capisco. Oserei dire che mi emoziono solo quando capisco.

Quest’ultima fra non è del tutto vera, ci sono state e ci saranno eccezioni: in prima media non capivo Francis Bacon ma mi emozionò lo stesso, capii che in qualche modo mi parlava. Lo portaii all’esame due anni dopo, con la prof che mi prese da parte chiedendomi se a casa andava tutto bene.

Scrivo questo perché è uno dei pochi casi in cui emozione e “volere” sono in sincronia: farsi piacere Francis Bacon alle medie fa figo, me ne rendevo conto già allora ed ero contento che, per una volta, ci fosse sincronia.

Quando ieri sono stato ad Entomodena – fiera entomologica che da quasi sessant’anni si tiene nella mia città e che, in un modo o nell’altro, avevo sempre saltato – ha rimestato in questa dialettica fra piacere reale e piacere desiderato. A vent’anni, guardare insetti crocefissi su uno spillo sarebbe stato tutto legato a Cristina Campo – sue le citazioni in esergo – al Jünger di “Cacce sottili” che non avevo letto ma desideravo ardentemente. A quarant’anni il management delle aspettative è pratica quotidiana, per cui è stato bello godersi una fiera così com’era, senza troppe sovrastrutture. Tommi si è appassionato all’arnia trasparente delle api, abbiamo visto ragni, farfalle, sanguisughe, lumache giganti. È stata una gitarella padre-figlio e me la sono goduta così. Ho percepito, quello si, un senso di comunità che avevo un po’ perduto: una “comunità di pratica” – come quando le studiavo all’università – comunità di appassionati. Gli entomologi – come i wikipediani, come gli speleologi – lo diventanto soltanto quando smettono di fare i postini, gli impiegati, gli avvocati, i poliziotti. A volte l’identità si trova dalle cinque alle nove, e non il contrario.

Il pomeriggio sono tornato da solo, sono andato ad ascoltare Tommaso Lisa che presentava il suo nuovo libro.

Da tempo voglio leggere i libri di Tommaso, mi ero segnato l’appuntamento sul calendario. E chiacchierare con lui di entomologia, di letteratura, di quel continente insulare che è Nabokov, ha rimestato ancora questi pensieri.

Passeggiando fra le teche di farfalle, non sono stato sedotto dal demone dell’entomologia.

C’è differenza, fra letteratura e vita. Leggere l’ecfrasi di una farfalla è diverso, per me, che osservare una farfalla.

Al momento, l’atto estetico mi accade solo nel primo caso: perché la lettera scritta è il modo che io ho imparato ad usare da tempo immemore per relazionarmi col mondo.

Se scritto abbastanza bene, potrei leggere di ogni cosa – per definizione, ogni cosa scritta abbastanza bene diventa letteratura, quindi epifania, quindi porta.

Trovo importante che Tommaso stia solitariamente provando a costruire questo ponte fra letteratura ed entomologia.

Magari aiuterà anche a me a colmare la distanza fra lettere e farfalle.

Tesla Battery Day 2020

Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Domani il 29 settembre 2020.

Il 22 settembre a Fremont, in California, si è svolto il battery day, un evento in cui l’azienda americana Tesla, guidata da Elon Musk, ha rivelato nel dettaglio la propria strategia per «accelerare l’avvento dell’energia sostenibile».

È stata un presentazione senza prototipi avveniristici né demo finite male, come quella del Cybertruck di un anno fa, ma probabilmente più importante e rivoluzionaria.

Batterie
 L’argomento principale, come da titolo, erano le batterie, la componente più importante di un’auto elettrica: composte da materiali come litio, nickel, grafite, cobalto, sono molto pesanti e molto costose. Proprio per questo, sono il perno fondamentale della transizione ad un trasporto elettrico.

Per questioni fisiche, un motore elettrico è naturalmente superiore a un motore termico: possiede accelerazione istantanea, non ha marce, è composto da meno componenti e necessita quindi di minore manutenzione, oltre ad essere soggetto a meno malfunzionamenti.

Un motore termico invece brucia carburante per ottenere energia meccanica e muovere il veicolo: ma è profondamente inefficiente, perché genera molto calore. Di fatto, tutto il calore è energia sprecata, cioè benzina — o diesel, o metano — che viene bruciato inutilmente, con un gratuito surplus di inquinamento.

Un motore termico può dissipare fino al 90 per cento di energia in questo modo. Un motore elettrico è molto più efficiente, e meno inquinante anche quando utilizza energia elettrica prodotta da combustibili fossili.

Il vero problema della macchina elettrica non è dunque il motore, ma “il serbatoio”, cioè la batteria dove si immagazzina l’energia.

Attualmente, le batterie sono composte da tanti piccoli cilindri, chiamati celle, che funzionano esattamente come le pile ricaricabili che mettiamo negli elettrodomestici.

A parità di peso, un serbatoio pieno di carburante può contenere fino a decine di volte più energia di quanta ne riusciamo a immagazzinare in una batteria al litio: riempiendo di benzina un serbatoio da 50 litri, un’auto può percorrere anche mille chilometri, mentre un’auto elettrica avrebbe bisogno di una batteria enorme per fare lo stesso tragitto.

Proprio per questo ogni innovazione che aumenti la densità energetica delle batterie, ne diminuisca il peso o il costo avvicina i veicoli elettrici alla parità con le auto normali.

Al momento, la maggior parte delle batterie in commercio ha un costo fra i 100 e i 200 euro per kilowattora (un kilowattora è la quantità di energia immagazzinata: una famiglia ne consuma circa 1.500 in un anno, in casa.)

La legge di Wright

Anche chi non è un informatico, in questi ultimi anni ha sentito parlare della “legge di Moore”, che afferma: «Un microprocessore raddoppia di potenza ogni 18 mesi».

È una legge empirica che ha saputo predire con grande precisione l’incredibile aumento di capacità di calcolo dei nostri computer. Soprattutto, descrive una curva esponenziale e, come abbiamo tristemente imparato a conoscere in questi tempi pandemici, con le leggi esponenziali non si scherza. Una lenta crescita all’inizio può risultare senza controllo più avanti. Quello che al principio sembra un lieve scalpiccio può annunciare l’avanzata furiosa dei cavalieri dell’Apocalisse.

La legge di Moore ha predetto e guidato per decenni la gigantesca tecnologizzazione del mondo, quella per cui negli anni Sessanta i mainframe occupavano intere stanze e oggi un ragazzino ne ha uno in tasca migliaia di volte più piccolo, e miliardi di volte più potente. Un’innovazione tecnologica senza precedenti che ci pare scontata in informatica, ma raramente abbiamo visto in altri ambiti.

Una legge simile alla legge di Moore è la cosiddetta “legge di Wright”: per ogni unità di beni prodotta, il costo diminuisce di una percentuale costante.

La legge di Wright, al contrario della prima, si basa sull’esperienza e non sul tempo: più faccio qualcosa, meno mi costerà farla in futuro. L’esperienza rende migliori e più veloci: a livello aziendale significa conoscere sempre meglio i propri processi manifatturieri, che potranno essere migliorati ancora e così via, secondo una crescita costante. Ed esponenziale. Già negli ultimi dieci anni, il costo per kilowattora è diminuito dell’80 per cento, e anche il fotovoltaico ha visto abbattere i prezzi in maniera simile.

La legge di Wright è dunque fondamentale per nuove industrie come quella delle auto elettriche: un lento ma stabile flusso di produzione potrà aumentare di velocità con il passare del tempo, portando a batterie più performanti, meno costose e più leggere, fino a che la differenza economica con le auto termiche non sarà minima.

In un pianeta che sta alterando il proprio clima per gli effetti di una società completamente e totalmente dipendente dai combustibili fossili, questa parità diventa una questione fondamentale.

Anche a questo, dunque, servono gli incentivi statali su tecnologie come fotovoltaico, eolico, auto elettriche. L’investimento iniziale dà i frutti dopo pochi anni, con il calo dei prezzi, fino a che gli incentivi non diventano più necessari. Si tratta di spingere faticosamente una palla di neve su per una salita, prima che scavalli il crinale e scenda da sola, a valanga.

Battery day
Le innovazioni illustrate da Elon Musk e da Drew Baglino, rispettivamente CEO e ingegnere capo di Tesla, sono state tutte in questa direzione: non nuovi prodotti, ma tanti miglioramenti manifatturieri.

Sono state presentate delle nuove celle, ben più grosse delle attuali (46 mm di diametro e per 80 mm di altezza, contro le precedenti misure di 21 e 70 mm), che avranno 5 volte più energia, 6 volte più potenza, 16 per cento in più di autonomia, 14 per cento in meno di costi rispetto allo standard attuale.

Le nuove celle non verranno più inserite dentro moduli organizzati in una batteria: verranno invece incorporate direttamente dentro il telaio, diventando parte della struttura della macchina.

La strategia dell’azienda californiana è sempre stata quella dell’integrazione verticale, cioè di lavorare e produrre più componenti possibili direttamente in azienda.

Invece di comprare migliaia di componenti da centinaia di fornitori, l’obiettivo è incorporare gradualmente ogni segmento della filiera nel proprio flusso produttivo.

Proprio per questo Tesla ha appena comprato una miniera di litio in Nevada, ed estrarrà e lavorerà direttamente il minerale. Evitando così l’inquinamento dato dal trasporto delle componenti, e occupandosi direttamente del riciclo delle batterie vecchie.

Obiettivi

Il programma a lungo termine è dunque quello di passare dai circa 50 gigawattora annuali di produzione fino a 3 terawattora entro il 2030 (un tera equivale a mille giga): sessanta volte tanto, in dieci anni.

Sommando tutte le innovazioni presentate, Tesla afferma di poter dimezzare il costo delle proprie batterie, arrivando a circa 50 dollari per kilowattora, aumentando inoltre l’autonomia dell’auto del 54 per cento. Questo porterebbe i costi talmente in basso da raggiungere la fantomatica parità con le auto a motore termico, e persino andare oltre.

Rispondendo ad una domanda dal pubblico, che chiedeva cosa avrebbe fatto in futuro l’industria automobilistica tradizionale, Musk ha chiosato: «Non credo ci sarà un’industria dell’auto termica, nel lungo termine».

La transizione elettrica

È facile liquidare le affermazioni di Musk come mere trovate di marketing: l’imprenditore è molto controverso per le proprie ambizioni fantascientifiche (intende colonizzare Marte) e un uso sconsiderato dei social, che rende il suo profilo Twitter più simile a quello di un adolescente nerd che a quello di un miliardario con 38 milioni di follower.

Ma è sbagliato sottovalutarlo. Tesla ha raggiunto risultati impensabili fino a qualche anno fa: in dieci anni è passata dall’essere una piccola azienda da poche centinaia di auto vendute all’anno a divenire il leader mondiale del trasporto elettrico, con 50mila dipendenti, centinaia di migliaia di auto vendute in tutto il mondo e un tasso di crescita ancora paragonabile a quello di una startup.

Le auto elettriche non sono la soluzione al cambiamento climatico. O meglio: sono una condizione necessaria, ma non sufficiente.

Solo il mercato automobilistico può permettersi gli investimenti necessari per avere batterie al giusto prezzo, e con una filiera sostenibile dal punto di vista ambientale e dei diritti umani. Nei paesi che si sono potuti permettere una vasta campagna di incentivi economici, le auto elettriche rappresentano un segmento significativo del mercato: in Olanda hanno raggiunto il 10 per cento, in Norvegia addirittura il 50 per cento.

Raggiungere prezzi accessibili è dunque fondamentale, non solo per le automobili ma per tutto il settore energetico. Le stesse celle che fungono da serbatoio per un’auto possono immagazzinare l’energia in eccesso generata da un campo fotovoltaico, o da pale eoliche.

Con un sistema di accumulo a batterie, l’intermittenza dell’energia solare (prodotta solo di giorno) e dell’energia eolica (prodotta solo quando c’è vento) diventano costanti e affidabili tanto quanto le centrali a carbone. Che possono quindi venire sostituite anche nella loro funzione di stabilizzazione della rete elettrica, come già accade in alcuni progetti pilota nel mondo. Il tutto, ovviamente, senza emissioni.

Inoltre, batterie abbastanza leggere ed economiche potranno permettere l’elettrificazione dei camion e dell’intero trasporto su gomma, cioè una fetta consistente delle emissioni globali. Per poi, in futuro, anche gli aerei e le navi (ma qui, la competizione è anche con l’idrogeno).

In attesa di una società culturalmente ed economicamente pronta a liberarsi dal concetto di macchina privata, l’elettrificazione delle auto è un pezzo fondamentale per il raggiungimento dei nostri obiettivi climatici. E le batterie sono il punto nevralgico di questa elettrificazione.

Se di rivoluzione si può davvero parlare, dunque, lo sapremo solo fra qualche anno, se e quando tutte le innovazioni presentate da Musk saranno state implementate. Se le promesse verranno mantenute, il battery day di Tesla verrà ricordato a lungo.