Le biblioteche e la filiera dell’open

È un sacco di tempo che volevo parlare di quella che chiamo “filiera dell’open”, cioé di quella serie di pratiche, strumenti e protocolli che permettono ad un contenuto di venir condiviso su piattaforme quali Internet Archive, Wikipedia, Wikisource, Wikidata.

Ogni contenuto potenziale (foto, dipinto, scansione, testo) ha la sua filiera potenziale, più o meno lunga a seconda dei casi, più o meno attenta ai dettagli, più o meno granulare. È praticamente impossible fare un discorso pratico generale: è forse possibile fare un discorso teorico generale, ed è quello che, raccogliendo innumerevoli discussioni e ragionamenti occorsi in questi anni di attivismo wiki, ho fatto sull’ultimo numero di JLIS. Spero possa offrire una cornice teorica utile a wikimediani e bibliotecari per incontrarsi nel mezzo, e capire un po’ ciascuno l’uno dell’altro.

L’articolo è in italiano,  qui.

Serendipity databasistica

Prologo

Quando ero ragazzino, spesso andavo in videoteca a prendere una videocassetta da guardare il sabato sera, solitamente con i miei genitori e fratelli.
Essendo da sempre un fifone, e da sempre avendo una famiglia piuttosto numerosa, mi dirigevo sempre verso la corsia dei film per famiglie, privilegiando le commedie e gli action, o meglio ancora l’intersezione fra i due. Essendo un bambino mi affidavo al mio istinto, guardando le copertine, ma senza accorgermene avevo imparato a cogliere alcuni segnali precisi: la dicitura “film per tutti”, o qualche indicazione che il film potesse non contenere scene di sesso (mai divertente da guardare con i tuoi genitori) o scene troppo violente. Il marchio della Disney, all’epoca, bastava, anche sui film. Anche la presenza di Robin Williams era un segnale estremamente affidabile.
Scelto il film, perdevo poi la maggior parte del mio tempo a guardare film che non avrei preso: action più violenti e non adatti, che avrei voluto guardare da solo. Oppure horror, di cui mi spaventavo solo a vedere la copertina, ma di cui leggevo sempre la trama sul retro, rabbrividendo lì, da solo e in piedi, come uno scemo. Anche il sabato, a pranzo dalla nonna, leggevo sempre TV Sorrisi & Canzoni, leggendo le trame dei film paurosi, che non avrei mai guardato nè voluto guardare, e confrontavo mentalmente il rating che veniva dato per categoria (Azione, Commedia, Horror, Erotismo) per ogni film. La mia passione per i metadati viene da lontano.

* * *

All’epoca abitavamo ancora a Sassuolo, e una nostra zia, una delle sorelle della nonna, viveva un paio di piani sopra il nostro appartamento.
La zia aveva una collezione infinita di libri, tutti del marito, morto prima che io nascessi. Ho sempre pensato che io e lo zio saremmo andati molto d’accordo: c’erano libri enormi e bellissimi, edizioni antiche e preziose. La casa era piena, con librerie colme in doppia fila.
Ma la cosa che allora mi piaceva di più non era guardare i libri, ma la collezione di videocassette della zia.
I figli, che non la andavano mai a trovare, avevano Telepiù, per cui le registravano una caterva di film, che poi lei riguardava mille volte, nei lunghi pomeriggi da sola. A me andare su dalla zia piaceva moltissimo: fra libri e film potevi scoprire un sacco di cose, entrare in mondi meravigliosi, ubriacarti di titoli e idee e cosa da leggere o vedere. Non ci avevo mai pensato prima d’ora, ma credo che in quelle lunghe mezzore dalla zia Gegi abbiano seminato qualcosa dentro di me. È morta da poco, sola come è sempre stata.

* * *

Oggi, nel 2018, fa abbastanza ridere ripensare a quello che poteva essere l’esperienza di un consumatore culturale di vent’anni fa.
Sono diventati obsolete le videocassette, e anche la tecnologia successiva, i DVD. È diventata obsoleto il modo in cui le videocassette si prendevano: il noleggio nella videoteca di quartiere e la sua evoluzione Blockbuster. Sono diventati obsoleti (a parte nicchie esigenti) i negozi di dischi. A loro modo, pur nella loro particolarità di servizio pubblico fuori dal mercato, credo siano diventate obsolete anche le biblioteche. Almeno in parte.

In questa trasformazione dall’analogico e fisico al digitale, quello che si è perso (a torto o a ragione) è soprattutto un’esperienza di navigazione, esplorazione e scoperta.
Non possiamo più camminare in luoghi fisici che contengono diverse opere culturali, siano esse, appunto, musica o film o libri.
Questo tipo di esplorazione è stata una conquista nelle biblioteche, che per secoli erano più simili ad archivi, e per cui cercare un titolo voleva dire chiederlo direttamente al bibliotecario incaricato. Lo scaffale aperto (così si chiama) è una innovazione piuttosto recente, ed ha permesso quella che è la l’esplorazione libera, la scoperta casuale, o, come piace dire ai bibliotecari (e anche a me), la serendipity, cioè il trovare qualcosa che non si stava cercando. Nei luoghi fisici è possibile fare un giro, in quelli virtuali molto di più da una parte (c’è più roba), molto meno dall’altra.

Esplorare i cataloghi digitali

Servizi come Netflix per i film e le serie e Spotify per la musica offrono un catalogo (più o meno ricco, aggiornato, recente) e una modalità flat per l’accesso. Per i libri c’è Amazon (che promette quasi qualsiasi libro a casa tua in pochi giorni), o anche servizi di prestito digitale bibliotecario come MLOL. Con il digitale, cioè, si può navigare un luogo virtuale pieno di contenuti, e accedere direttamente a questi contenuti. Modalità e costi variano, ma il modello è pressochè lo stesso. Esiste un catalogo e, insieme, l’accesso alle opere del catalogo. Ma esistono anche cataloghi e basta, con componenti più social: il quasi-fu Last.fm (musica), aNobii e Goodreads e LibraryThing (libri), Letterboxd (film).

Quello che personalmente ho iniziato a guardare con più attenzione è proprio la modalità, la facilità con cui io (l’utente) posso navigare e praticare quello che amo di più, cioè fare un giro, lasciarmi ispirare da quello che vedo e proseguire per strade che non ho premeditato.
In questo senso preciso, tutti i siti menzionati sono diversi. Alcuni vogliono che navighiate, altri preferiscono piazzarvi in faccia i contenuti più nuovi o popolari, e farvi accedere a quelli. Abbastanza banalmente, Netflix e Amazon preferiscono che voi guardiate qualcosa subito, mentre social come Goodreads o Letterboxd  puntano a farvi passare del tempo lì dentro, facendo un po’ quello che volete. Se voi trovate appagante o interessante stare dentro un sito ad esplorare, è probabile che tornerete, scriverete recensioni e aggiungerete dei vostri contributi (cioè, aggiungete voi valore al sito. Personalmente, questo do ut des lo trovo sempre onesto).

Questo tipo di esplorazione e di scoperta sono, per me, associati ad uno schermo del pc, ad una tastiera e preferibilmente ad un mouse (lo so, sono un nostalgico), e lo trovo meno interessante su mobile o altri dispositivi. Ma magari sono io.
Queste azioni le associo anche a copertine molto grandi, un font ampio e leggibile, metadati molto ricchi, e moltissimi link.
Seguendo l’esempio di Wikipedia (forse la regina della ricerca serendipituosa), avere moltissimi link, tutti all’interno di uno stesso progetto, ben strutturato e organizzato, è ottima ricetta per permettere all’utente di lasciarsi andare nel labirinto dei riferimenti e link, senza avere paura di perdersi, perchè è di fatto impossibile.

Il punto è che la serendipity-come-azione (che oramai nel digitale è diventata una cosa che mi piace chiamare esplorazione databasistica) è un’azione proattiva, di ricerca, lean forward. Qualcosa che ha a che fare con l’imparare, e l’eccitazione che ne consegue.

the_problem_with_wikipedia

* * *

Facciamo un esempio.

L’anno scorso (e anche l’altra sera) ho guardato un film che mi è piaciuto molto: Sicario, di Denis Villeneuve.

Come faccio sempre, sono andato nel mio sito di cinema preferito (che, guarda caso, racconta di film horror che non guarderò mai), a rileggere una recensione perfetta. Preso dalla curiosità su Roger Deakins (direttore della fotografia che non ho mai sentito nominare, ma che è raccontato nella recensione e di cui soprattutto ho notato il lavoro dentro il film) ho seguito il link a questa intervista del cast. Poi, tramite Letterboxd sono andato a vedere tutti i film diretti (fotograficamente) da Roger Deakins; in questo modo  posso rendermi conto che Deakins ha collaborato all’intera filmografia dei fratelli Coen, oltre all’ultimo Blade Runner e altri film che ho amato in passato. Nel frattempo mi sono reso conto anche che non conoscevo nulla di cosa fosse un “direttore della fotografia” (in inglese il termine è molto più pregnante: cinematography), e di cosa consistesse il suo lavoro.

Costruire la serendipity

La curiosità è partita da tutt’altra parte, ma, nel mio caso, è Letterboxd a consentire l’esplorazione databasistica, e di qui la scintilla della serendipity¹. Con essa, arrivo a scoprire, in un certo senso, qualcosa di me, del mio gusto estetico, di cosa-mi-piace-in-un-film che prima non conoscevo. Conoscere Deakins e il suo lavoro sta cambiando il modo in cui guardo un film, cosa mi piace e perchè.

Letterboxd fa due cose:

  • permette di esplorare una biblioteca di film sterminata, abilitando la serendipity, e rendendola più probabile, più frequente.
  • permette di costruire su questa esplorazione, elaborando un numero infinito di liste e viste (in senso databasistico) di film (le wishlist, i film che sono la collaborazione di Deakins e Villeneuve, i film a cui ho dato più 4 stelle, ecc.) che possono aiutarmi nel mettere ordine al mio consumo culturale, alla mia biblioteca di Babele di film

Le modalità, a livello di interfaccia utente, con cui Letterboxd riesce a fare questo (e, per esempio, IMDB, da cui i dati sono presi, non ci riesce) sono più sottili e non saprei neanche analizzarle seriamente. So che c’entra, come detto, la copertina molto grande, l’accesso al trailer su Youtube, centinaia di link per pagina, rating e recensioni. Questa attenzione all’esperienza dell’utente è fondamentale, quando come progetto ti basi sulla creazione di valore da parte di una comunitàche infatti in questo caso risponde con un’attività frenetica ed entusiasta (sperando che duri: appena diventerà troppo famoso diventerà inutile come RottenTomatoes?).

Per come la vedo io, è una delle cose migliori che mi possano capitare, nell ristretto ambito del “consumo culturale”: so qualcosa di quello che mi piace che prima non sapevo, elaboro mentalmente (e concretamente) una wishlist dei film che vorrò guardare in futuro.

Conclusioni

Le biblioteche possono imparare qualcosa? Sicuramente. È più facile che imparino siti simili come Goodreads o aNobii (che hanno a che fare con cataloghi enormi, e possono permettersi lo stesso meccanismo social e user-centered). Non ho ancora le idee chiare a riguardo: non capisco quali siano i fattori fondamentali, anche se il mio intuito è sulla triade:

  • catalogo totale² (tutti i libri/film/dischi mai pubblicati)
  • funzioni social e di personalizzazione
  • interfaccia totalmente costruita sull’esperienza utente e su quello che deve fare (deve comprare? deve esplorare? deve costruire cataloghi personali? sono cose diverse)

Con MLOL (per parlare di un caso che conosco bene)  abbiamo ancora tanto lavoro da fare, anche se secondo me la nuova interfaccia più focalizzata sulle immagini è un grande passo in avanti. Da tempo abbiamo anche istituito le liste, ma sono ancora ahimè lontane dal loro potenziale. L’user centered design è una roba davvero difficile.

 

Bonus

¹ Poi, certamente, la serendipity può prendere altre strade: posso scoprire, in questa esplorazione, una nuova forma d’arte come i video essay di Youtube, spesso dedicati proprio all’arte alla tecnica del fare cinema. Come per esempio questa classifica dei migliori cinematographists di sempre, o questa serie sul regista David Fincher:

² Spesso, per parlare della catalogo/biblioteca totale si fa riferimento alla Biblioteca di Babele, mirabile invenzione letteraria dell’omonimo racconto di Borges. Questo è un malinteso, e vorrei usare questa nota per metterlo in chiaro una volta per tutte (consiglio anche questo bell’articolo di Antonio Sgobba).

La biblioteca di Babele consiste nella totalità di tutti i libri che possono essere scritti tramite la permutazione delle lettere in una pagina. Comprende, certamente tutti i libri che sono stati scritti, e che mai lo saranno, ma è molto, molto di più. La biblioteca di Babele è, fondamentalmente, puro rumore tipografico, in cui parole di senso compiuto sono annegate in oceani di nb cbdsucgwuyefuo vnjvgyasrtweuhw lo jihdhi… Per controllare, basta guardare una qualsiasi pagina a caso presente nella biblioteca (fate attenzione: guardatela bene, perchè non la ritroverete mai più, persa per sempre come una della pagine del libro di sabbia).

La biblioteca di Babele è una pessima metafora per quello che spesso vogliamo dire, cioè “la somma di tutti i libri esistenti”: in questo senso, il concetto di docuverso di Ted Nelson può essere molto più utile e corretto.  O aggettivi come “totale”, “definitiva”.

Il possibile futuro elettrico

La bella notizia di oggi, fra le tante brutte,  per me è questa.

Il riassunto è questo: Tesla ha stretto un accordo con il governo sud-australiano, per installare pannelli solari e Powerwalls in 50000 case. I numeri totali sono impressionanti: il sistema arriverebbe a 250MW (in entrata) e 650MWh (in accumulo), praticamente tali da mantenere una città di media grandezza. L’idea, geniale, è quella di avere una rete di produzione, scambio e accumulo di energia, praticamente una centrale elettrica virtuale e decentrata.

Ne avevo scritto anche in precedenza, con molti più dettagli: questo è esattamente il tipo di progetti che Tesla aveva in mente quando ha comprato Solarcity.

La notizia è positiva per un paio di motivi:

  • Tesla sta mostrando che sistemi di produzione + accumulo energia funzionano, e anche molto bene: un paio di settimane fa il sistema creato (sempre nel Sud Australia) ha guadagnato un milione di dollari in pochi giorni, semplicemente assorbendo e accumulando l’energia elettrica in eccesso nella rete.
  • La politica, se vede i numeri giusti, può agire e in fretta: il governo Sud Australiano in pochi mesi ha messo insieme i due progetti più grossi mai visti in questo settore.

* * *

Ora, facciamo un gioco: immaginate un mondo in cui l’energia elettrica provenga tutta da fonti rinnovabili, come vento e solare. L’energia viene immagazzinate in batterie, e redistribuita alla rete secondo domanda. Ci sono talmente tanti sistemi solari (e tante batterie) che la produzione di energia è aumentata n volte. Cosa succederebbe alla nostra società? Cosa cambierebbe?

Sicuramente, elettrificheremmo tutto.
Non solo le auto, ma anche i camion, le navi (come già in Norvegia), gli aerei. Avremmo case scaldate con caldaie elettriche, tutti fornelli elettrici o a induzione. In questo modo avremmo automaticamente eliminato il 60-70% della produzione di gas serra.
L’importanza geopolitca di Russia e Medio Oriente (cioè, gas e petrolio) sarebbe completamente ridimensionata: con questo, si spera, pure le occasioni e la volontà di fare delle guerre per le risorse che possiedono.
L’Africa (che di sole ne ha finchè vuole) potrebbe, forse, iniziare a diventare quello che vuole diventare.
Le criptovalute come Ethereum o Bitcoin potrebbero finalmente funzionare senza il disastroso impatto ambientale che hanno adesso: e potrebbero finalmente tentare la rivoluzione che promettono (e se no, pazienza).

A me, sinceramente, pare un po’ assurdo che non ci sia, a sinistra, in Italia e all’estero, nessuno che raccolga la possibilità e la narrazione di un futuro del genere. Non di solo pane vive l’uomo, e stiamo purtroppo vedendo come si comportano le persone quando pensano di essere al muro, e di vivere tutti contro tutti: le spese le fanno quelli che sono appena più sotto in termini di potere. Per quanto ingenuo e non prossimo, questo è un futuro possibile, e non fra secoli: dieci anni di politiche e investimenti seri potrebbero fare davvero miracoli, molto più di quello che si pensi. Basta guardare al Sud Australia, alla Norvegia, al Costa Rica. La visione è chiara, le tecnologie in parte ci sono: manca la volontà.

Auto elettriche, batterie solari e brevetti gratis: il piano di Elon Musk per cambiare il mondo

Questo articolo è stato pubblicato il 20 aprile 2016, su CheFuturo. Pochi mesi dopo, Tesla ha comprato Solarcity.

Dopo aver svelato il Model 3, l’ultima automobile elettrica di casa Tesla, metà del mondo ora conosce la rivoluzione delle macchine elettriche che Tesla e il suo fondatore, Elon Musk (miliardario, visionario, genio, prodigio) stanno cercando di attuare.

Per dare un’idea dell’impatto della presentazione, vi dico solo che qualche giorno fa, in un piccolo bar di umarell fuori dal centro di Modena, due signori leggevano il giornale e parlavano animatamente, in dialetto, della nuova macchina.

Personalmente, però, credo che l’importanza di questo evento sia un altro. Il Model 3, per quanto meraviglioso, è solo l’inizio della rivoluzione elettrica.

Quello che secondo me è fondamentale, ed eccitante per chi sia preoccupato dal cambiamento climatico, è la combinazione di Tesla e Solarcity, insieme.

Facciamo un passo indietro.

Come sa qualsiasi fanboy di Tesla, e chiunque abbia avuto il coraggio e la perseveranza di leggere questo incredibile (e lunghissimo) post su WaitButWhy, Musk è partito con un piano preciso si dall’inizio.

È partito da un’idea semplice quanto ambiziosa: preservare l’umanità dal cambiamento climatico (lo so, lo so, c’è gente matta così).

Di conseguenza, Musk ha creato Tesla, per fare macchine elettriche; SolarCity, per costruire pannelli solari; SpaceX, per mandare la gente su Marte, fra vent’anni.

Ma parliamo delle prime due.
Non tutti sanno che Tesla non produce solo macchine elettriche, ma anche batterie, come il Powerwall e i Powerpack.

Powerwall

Il Powerwall è una batteria per la casa: si ricarica quando i pannelli fotovoltaici, durante il giorno, producono un surplus di energia, come per esempio a mezzogiorno. Invece di reimmettere l’energia nella rete (con conseguenti inefficienze e ritorni ribassati), si carica una batteria, che restituirà l’energia la sera, quando serve e i pannelli non producono. Può essere usata per tutto: molte persone la useranno di notte per ricaricare la loro Tesla con l’energia immagazzinata durante il giorno.

Ancora più interessante è il Powerpack, cioè una versione industriale del Powerwall. Il Powerpack possiede una caratteristica che lo rende estremamente potente: è scalabile infinitamente, cioè ne puoi collegare quanti vuoi, per soddisfare tutte le esigenze, dalla piccola azienda al grande ospedale. Idealmente, ci puoi fare il backup energetico per un piccola città. Tipo Lego.

L’hanno detto loro stessi: Tesla non è solo un’azienda automobilistica, è un’azienda di innovazione energetica.

Solarcity, invece, lavora con l’energia solare: produce pannelli, li offre in leasing ai propri clienti, in modo che non debbano fare l’investimento di comprare un sistema fotovoltaico, ma semplicemente paghino la bolletta a SolarCity invece che al provider precedente. Questo approccio innovativo gli ha garantito un’enorme crescita e una posizione dominante nel mercato statunitense.

Date queste premesse, il conto è presto fatto: Solarcity crea energia, Tesla la conserva. Insieme, sono una vera rivoluzione.

Un ecosistema per creare, immagazzinare, trasformare, trasportare energia. Un nuovo ecosistema energetico, ecologico e potenzialmente illimitato.

Probabilmente il miglior tentativo di combattere il cambiamento climatico (oltretutto, da parte di aziende private, qualsiasi cosa questo possa voler dire).

Due elementi inoltre sono fondamentali per capire come Tesla e Solarcity stanno attuando il loro piano.

La riduzione dei prezzi, le gigafactory per le batterie e i brevetti gratis

Il primo è la riduzione dei prezzi, il vero ostacolo ad un’energia solare di massa.

Le rivoluzioni tecnologiche non avvengono quando si produce un meraviglioso prototipo un laboratorio di ricerca e sviluppo: la rivoluzione vera c’è quando quel prototipo è nelle mani delle persone.
Per far questo, i prezzi devono crollare. La rivoluzione digitale non avvenne con l’invenzione del transistor, ma con il costo del transistor talmente basso da permettere la creazione di chip, e poi computer, e poi computer che le persone normali potevano comprare. La ricerca di una tecnologia sempre più efficiente può essere un ostacolo all’innovazione quando nessuna tecnologia intermedia raggiunge il mercato.

Per questo, sia Tesla che Solarcity stanno costruendo due enormi fabbriche, una per costruire batterie e l’altra pannelli solari: una è la famosissima Gigafactory Tesla in Nevada (quando sarà completato, sarà uno degli edifici più grandi del mondo), l’altra è la SolarCity Gigafactory a Buffalo.
Tramite economie di scala, queste fabbriche punteranno a far abbassare i prezzi, rendendoli il più economici possibile per un utilizzo di massa.

Il secondo aspetto riguarda invece un punto fondamentale dell’innovazione tecnologica moderna (i brevetti) e un paradigma fondamentale per l’innovazione stessa (competizione VS collaborazione).

Per quanto velocemente possa crescere, Tesla non potrà produrre tutte le macchine elettriche e le batterie necessarie per modificare seriamente il trasporto e fermare da sola il cambiamento climatico. Anche vendesse mezzo milione di macchine da qui al 2020, come promesso, sarebbero soltanto lo 0,5% delle macchine in circolazione.
Per incentivare l’innovazione su queste tecnologie Tesla, come ha già fatto, aprirà tutti i suoi brevetti, così altre compagnie potranno usufruire dei loro risultati e produrre loro ottime macchine elettriche. Certo, Tesla punta sicuramente a fare miliardi di dollari di profitti: ma se l’obiettivo principale è combattere il cambiamento climatico, deve essere anche uno sforzo collaborativo. La rivoluzione elettrica non può essere compiuta da un solo attore.

L’innovazione nella visione di Elon Musk

Quindi, a conti fatti, il piano di Musk è piuttosto semplice.

Costruisci delle macchine elettriche meravigliose, una più economica dell’altra. Costruisci una superfabbrica per le batterie. Costruisci una superfabbrica per i pannelli solari. Abbassa  i prezzi abbastanza perché le persone possano scegliere il tuo prodotto. Apri i brevetti. Ripeti.

Avere un Powerwall potrà voler dire, per alcune persone, potersi staccare dalla rete elettrica e vivere dove vogliono.

Veicoli Tesla con pannelli solari potrebbe portare energia elettrica in qualsiasi luogo: il futuro potrebbe regalarci ambulanze energeticamente autonome in Africa, per esempio. Potremmo avere una rete elettrica decentralizzata e dinamica. Potremmo avere case, aziende, fabbriche e servizi diventare carbon neutral in pochi anni.

Alla fine, Musk non sta cercando di rivoluzionare il mondo delle macchine; ma l’intero settore energetico.

Con pochi prodotti, idee chiarissime, e un lavoro che deve essere al limite della perfezione. Poi si dice la visione.

I libri del 2017

Come l’anno scorso, rubrica bibliostatistica di fine anno. Prima qualche dato sui libri letti, poi le recensioni.

Bibliostatistiche

33 libri finiti, per 9302 pagine totali. In tutto sarebbero 44, ma vari li ho abbandonati durante il percorso. Un paio penso di finirli nell’anno che viene, e precisamente FRBR di Karen Coyle (scaricabile gratis qui), Thinking Fast and Slow di Daniel Kanheman, Capire l’economia in sette passi di Leonardo Becchetti: non a caso, sono tutti ebook (mi si è rotto l’ereader in primavera, e ci ho messo mesi prima di prenderne un altro. Mi si è rotto anche il computer, e ho dovuto ritrasferire tutto… Per cui mi sono perso dei pezzi per strada. Ma i libri sono tutti belli e hanno bisogno del loro tempo).

Rossi finiti, viola abbandonati, verdi da finire.

Gli editori vincenti sono Adelphi e Einaudi: anche qui, nessuna sorpresa. Qualche piccolo editore in più, certamente, nuovo dato possibile dal fatto che quest’anno, appunto, non ho comprato solo libri usati, ma anche nuovi a metà prezzo. Di fatto, quindi, 22 editori totali, su 44 libri, non male.

A sinistra, lo spessore della linea è dato dal numero di pagine. A destra, dal numero di libri.

Sembra quasi una legge di potenza, in cui i primi, pochi editori si equivalgono in numero a quegli altri.

Adelphi e Einaudi da soli sono quasi la metà degli altri editori.

Come l’anno scorso (tre), solo poche autrici (cinque): inizio a vedere che è una cosa sistemica. Non lo faccio consciamente, ma è evidente che cerco libri scritti prevalentemente da maschi. Ci sono sempre eccezioni, ma c’è anche la regola: non so bene cosa farci al momento.

Il verde è Autori vari.
Dimensioni per numero di pagine.

Anche le nazionalità, duole dirlo, sono sempre le stesse (Giappone e Belgio sono nuovi, per me):

Dimensione è sempre numero di pagine.

Qui si vede meglio:

Area per numero di libri.

Il rapporto fra fiction e non fiction mi pare sempre lo stesso, anche se negli ultimi anni la domanda inizia ad acquistare sempre meno senso: come catalogare Carrère, O’Hagan, Wallace, Vasta, White? Senza entrare in un discorso a questo punto fine a sè stesso, è ovvio che non sono saggi accademici, non sono opere di pura invenzione, ma sono disseminati in punti diversi dello spettro continuo fra questi due estremi. Forse ci starebbe una nuova categoria, ibrida.

Blu nonfiction, rosso fiction. Dimensioni per numero di pagine.

A pensarci bene, un’altra dimensione importante (sempre a spettro continuo, e abbastanza soggettiva) ci starebbe per complessità/difficoltà di lettura. A volte un romanzo (vedi Infinite Jest) è una bestia molto più difficile da digerire di un libro di articoli (vedi I demoni della pasta sfoglia). E quasi a parità di numero di pagine. It me lo sono mangiato in pochi giorni… Questa difficoltà è spesso correlata con quanto tempo ci metto a finire un libro. Per cui un’analisi più accurata (che non riesco davvero a fare perché mi mancano i dati, aNobii non li lascia esportare) prevederebbe guardare anche al numero di pagine totali, rapportate al numero di giorni di lettura.

Recensioni

Quest’anno a Modena hanno aperto non una ma due librerie dell’usato: una classica, a poco prezzo ma con libri spesso belli. L’altra, a fianco, con libri nuovi, a metà prezzo. Questo spiega l’esistenza di tutti questi libri “nuovi”, cioè usciti da poco. È stata certamente una una bella novità, per me. È così che legge la gente normale?

Quest’anno ho letto in maniera un po’ sconnessa (ho chiamato casa, anche se temporaneamente, quattro luoghi diversi), e forse, in termini di libri, è stato un anno meno felice letterariamente di altri, con qualche meritevolissima eccezione.

Absolutely nothing di Giorgio Vasta

Non avevo mai letto nulla di Giorgio Vasta: tutto a mio detrimento, pare.

Libro fotografico della premiata ditta Quodlibet & Humboldt, che fa libri bellissimi dentro e fuori, con copertine minimali ma esatte, e la palette dei colori solitamente perfetta.

Esatto e perfetto sono aggettivi che potrebbero vestire anche la prosa di Vasta: precisa al millimetro, erudita, dizionariale (se si può dire), mai gratuitamente pesante, riempie il deserto di sassi-parole, uno alla volta. La scrittura spesso deraglia, vaga raminga ma poi torna sempre, ritrova il suo baricentro, la strada che aveva momentaneamente perso. Densa è certamente un altro epiteto possibile: oltre che vasta, nomen omen.

Ho apprezzato varie cose del libro: la prosa, ovviamente, l’ibrido diario/prosa/saggio/reportage, come l’ibrido immagini e parole, ma credo soprattutto la candida ammissione di raccontare una menzogna mischiata con la verità, perchè era giusto così. Non sappiamo cosa sia davvero successo, nel viaggio di Giorgio, Ramak e Giovanna, e in un certo senso poco importa.

Alcune pagine (penso specialmente al “Tentativo di comprensione di che cosa mi è stato effettivamente rubato in sogno”) sono davvero splendide, e credo resteranno (in me, almeno). Altri esperimenti mi hanno preso meno (soprattutto il dialogo con Spike), ma l’ambizione del libro penso si faccia perdonare moltissimo. A suo modo, un libro da mare e da montagna, di interminati spazi e sovrumani silenzi.

Storia del Saggiatore

Libercolo omaggio regalato nello stand dell’omonima casa editrice, a Tempo di Libri, Milano, 19–23 aprile 2017. Storia breve della suddetta casa editrice: le origini con Alberto, figlio del più famoso Arnoldo, figura titanica dell’industria culturale italiana, e figura titanica tout court, tanto che il povero Alberto ne soffrì tutta la vita. Il libercolo è interessante anche se personalmente l’ho trovato un po’ arido. Parte della storia già la sapevo (letta nel gigantesco Arnoldo Mondadori di Enrico Decleva), ma io non mi stanco mai di leggere le biografie delle italiche lettere.

L’astore di T.H.White

Ne avevo letto come di uno dei libri più belli dell’anno scorso, e avevo letto giusto.

Libro autobiografico, con una storia molto semplice: a metà anni ’30, il futuro scrittore de “La spada nella roccia” decide di diventare falconiere, si ritira a vita privata, inizia ad addestrare un astore.

Il valore è tutto nello stile, nella lingua rapace, nella follia dell’idea e dei metodi: nelle lunghe notti di veglia, a fiaccare l’orgoglio del falco, tenendolo sul braccio alzato, fiaccando sè stessi con lui; nella pazienza infinita del ripetere i gesti mille volte, e quando si è fallito iniziare da capo; nella magistrale misantropia, evidente ad ogni pagina, di chi sceglie il monachesimo dei falchi. Fuori imperversa la seconda guerra mondiale: ringrazio Terence Hanbury White che decise, solitario, di combatterne un’altra.

Un conto ancora aperto di Ta-nehisi Coates

Secondo libro di Coates che leggo (l’anno scorso ho letto Tra me e il mondo, e mi è piaciuto tantissimo), scopro solo alla fine che era un lungo articolo apparso sull’Atlantic. La tesi è chiara, provocatoria e non ammette nessuna replica: finchè gli Stati Uniti non guarderanno in faccia la tragedia della schiavitù, e tutte le sue enormi e ramificate conseguenze, non riusciranno a tagliare la gamba in cancrena che è la questione razziale. Ergo, a salvarsi.

Todo Modo

La scomparsa di Majorana di Leonardo Sciascia

Era tanto tempo che non leggevo Sciascia, di cui lessi poi i soliti (Il giorno della civetta, A ciascuno il suo) tanti anni fa.

Prosa limpida e sottile, direi soprattutto in Todo Modo (romanzo breve), appena meno nella Scomparsa (reportage giornalistico). Bellissimi entrambi, naturalmente, anche se ammetto di non sapere cosa pensare del finale del primo.

La produzione di Sciascia certo non manca, e mi rasserena molto sapere di poterlo leggere con calma, negli anni a venire.

L’amore assoluto di Alfred Jarry

Non ci ho capito un cazzo della minchia di niente. Ricordo che anche Ubu re mi fece un effetto simile: forse semplicemente io e Jarry non ci piacciamo. Peccato perchè, quando ne parlava Borges, questo libro sembrava estremamente interessante (come tutto quello di cui parla).

Lettere agli editori di Louis-Ferdinand Céline

Epistolario di Céline ai suoi vari, derelitti editori. Céline era veramente una persona di merda, e anche se nessuno aveva dubbi questa è un’ulteriore conferma. Libro per coloro a cui piace la sua prosa incendiaria e il suo gusto per l’insulto (davvero ammirevole). Personalmente dopo un po’ ha stancato (ho pure rivenduto il libro, cosa che non faccio mai).

The idealist di Justin Peters

The boy that could change the world di Aaron Swartz

The idealist è una biografia di Aaron Swartz, che da tempo volevo leggere. Fatta bene, scritta bene, con digressioni (forse persino troppo dettagliate) sulla nascita del copyright e la sua storia negli Stati Uniti.

Mi ha stupito, positivamente, la storia del processo, che non conoscevo così nei particolari. Ovviamente sapere il finale lo rende un libro molto triste.

The boy that could change the world è invece una raccolta di scritti dello stesso Aaron, alcuni provenienti dal blog, ma molti invece pubblicati in riviste o altre pubblicazioni. Questo lo rende sicuramente interessante, anche per chi come me il blog se l’è letto tutto (si anche trova in ebook, qui). Gli scritti sono divisi per tematiche, introdotti dai suoi amici, ed è sicuramente il modo migliore per approcciarsi a quello che è il suo pensiero, per quanto è naturale che sia un libro poco coeso (gli articoli coprono tutta la vita “pubblica” di Aaron, da quando aveva 14 anni fino ai 26).

La follia che viene dalle Ninfe

L’innominabile attuale di Roberto Calasso

Il primo non è il miglior Calasso, o perlomeno non quello che capisco di più. Articoletti e scritti sparsi, alcuni già letti in passato.

Il secondo invece, incredibilmente, è uno dei pochissimi libri del magnus opus calassiano (di quelli che costituiscono la sua grande opera, sempre in fieri) che sono riuscito a capire: per la prima volta, parlava di un argomento (il digitale) che conosco bene.

Calasso ha un genere letterario tutto suo: una saggistica personalissima, estremamente letteraria, in cui si permette collegamenti (a volte, completamente estemporanei) e tenuti insieme solo da suo sguardo unico, originalissimo, e del tutto opinabile. Si può leggere solo quando si conosce già l’argomento: dando per scontato il dato, si può ascoltare ciò che ha da dire, senza perdersi (se ci si riesce) nei mille riferimenti. A volte mi viene il sospetto che Calasso non scriva per nessuno, o meglio: il lettore ideale di Calasso non esiste, non può esistere, perchè non esiste chi ha letto come lui, quanto lui. È un’opinione che discutevo anche con Eva Barbarossa, che da anni sta cercando di leggere tutti gli Adelphi.

Venticinque agosto 1983 e altri racconti inediti di Jorge Luis Borges

Se non erro, non ho letto nessuna Biblioteca di Babele l’anno scorso, e bisognava rimediare. Borges è Borges, sempre, e va letto tutto.

Nel territorio del diavolo di Flannery O’Connor

Strano libro, con lezioni di scrittura di Flannery O’Connor, che non ho mai letto ma che scrive, evidentemente, benissimo. Strano perchè, pur ammirando e godendomi lo stile, non mi ha fatto voglia di leggere nessuno dei suoi libri: sarà l’insistenza quasi arrabbiata sui temi cristiani, per di più negli Stati Uniti del Sud degli anni ’50. Not my cup of tea (not my glass of moonshine?).

Come diventare sè stessi di David Lipsky

Una cosa divertente che non farò mai più

Infinite Jest di David Foster Wallace

Come diventare sè stessi è un reportage, mai pubblicato, che lo scrittore David Lipsky ha scritto su DFW, quando hanno passato qualche giorno insieme, nel ’96, negli ultimi giorni del tour promozionale di Infinite Jest. L’anno scorso ci hanno fatto un film, su questo libro (DFW è interpretato da Marshall di How I met your mother, che secondo me se la cava).

Ho letto il libro e guardato il film, in sequenza. Su Youtube si trova anche l’audio originale, registrato da Lipsky. Fa strano vedere una stessa opera in due medium diversi, o addirittura tre (ma non ho ancora avuto il coraggio di ascoltarlo tutto, l’audio).

Di fatto, il libro non è una lunga, poco editata intervista a DFW, con la sua voce che parla ad un registratore, di quello con le musicassette. E in quasi ogni pagina, DFW non fa che parlarsi addosso, parlare addosso all’altro David, parlare addosso al lettore futuro dell’intervista, in uno di quei soliloqui autocoscienti, manipolati e insieme sinceri, che lo rendono unico. E in quasi tutti questi soliloqui, DFW è cosciente di sè, della propria intelligenza e fragilità, disperato di risultare sincero e umile e intelligente allo stesso tempo. Ci devono essere stati ben pochi momenti nella vita di DFW in cui non sentisse il peso di tutto questa sensibilità.

All’inizio del film, Lipsky dice:

Wallace offriva tutto sè stesso, attraversando la nostra bolla di apatia, il nostro attaccamento alla TV, al consumismo, alla politica. Gli scrittori che ci riescono, come Salinger o Fitzgerald, forgiano un legame indistruttibile con i loro lettori. Non sei scivolato dentro il libro per una storia, o informazione, ma per una particolare esperienza. La sensazione, per un certo numero di pagine, di essere David Foster Wallace.

Parte della grandezza di Wallace è proprio qui, in questa sensazione di vicinanza percepita: quella in cui sembra che tu stia parlando con il tuo amico molto più intelligente di te, o un fratello maggiore che va all’università quando tu hai appena iniziato le superiori, e ti spiega e ti racconta, con fare scanzonato e inventandosi le parole e riempiendo tutto di scherzi e parolacce, il senso della vita e semplifica le cose complicate e complica le cose banali.

In qualche intervista su Youtube, fa impressione vederlo parlare: perchè lo vedi soffrire della propria indecisione, dalla velocità della testa che viaggia in tutte le direzioni. Era alto, grosso, bello, intelligentissimo, eppure viziato dalla tigna del pensiero che di fatto se l’è portato via. Da sempre, e continuamente, dilaniato dalla malattia mentale, da quella sanità che gli sfuggiva e che l’ultima parte della sua vita lo eludeva, come la felicità a re Mida, come il cibo a Tantalo. Difficile non vedere come sia questa sofferenza a renderlo così dannatamente vicino ad un sacco di persone.

Infinite Jest, se possibile, esprime tutto ciò (mille volte tanto, sotto steroidi) attraverso il velo della fiction. È un libro per cui, francamente, non ci sono parole. E non intendo in senso totalmente positivo: è un libro che ho faticato enormemente a finire, e che a tratti ho odiato. Ho odiato una prolissità spesso eccessiva (aiutatemi a dire “eccessiva”), ho odiato la violenza di moltissime sue pagine (la ritengo gratuita, e ci non ci sono quasi cose che mi danno più fastidio), ho odiato la noia di altre, centinaia di pagine.

Eppure, allo stesso tempo, è un libro in cui in ogni pagina (e sono più di mille) ci sono piccole frasi, invenzioni verbali, modi originali di descrivere una situazione, un gesto, una sfumatura emozionale. Non è possibile fare esempi perchè il mero numero di quante cose sono buone/ottime/eccellenti in questo libro toglie il respiro. È un libro, fra le altre cose, colmo di sofferenza, e in certi punti mi è sembrato di assistere ad un processo terapeutico: come se quello che ho avuto in mano per mesi fosse l’incarnazione (il resto, direbbe Calasso) di una patologia. Non so se rimpiangere un libro diverso, con 800 pagine di meno. Forse un editor di genio ci riuscirebbe, a preservare solo la sua voce più pulita e poetica. Forse va bene così.

La domanda, per me, rimane sempre quella: ma diocristo, David, perchè?

Bobi Bazlen di Cristina Battocletti

Non mi è piaciuto tanto, ma l’ho spiegato meglio qui.

Rumore bianco di Don De Lillo

Io e la letteratura postmoderna americana abbiamo evidentemente un problema. Non l’ho neanche finito.

La vita segreta di Andrew O’Hagan

Libro che non volevo leggere, per una strana idiosincrasia che sto ancora indagando, e che ha a che fare con il fatto, se così possiamo dire usando una frase un po’ pesante, che, prevalentemente, io leggo Adelphi per dimenticare il presente, non ricordarlo.

Se voglio ricordarlo o capirlo, leggo non fiction di altro tipo, che è pubblicata da altri. Ma per fortuna non mi sono dato ascolto, perchè il libro è bellissimo.

Non conoscevo O’Hagan, ed è stata una scoperta. I profili (soprattutto, di Assange e Craig Wright, il finto/vero Satoshi Nakamoto, creatore di Bitcoin) sono magistrali, narrati superbamente e allo stesso tempo altissima testimonianza sul tempo che stiamo vivendo. Ci sono le storie, i colpi di scena da spy story, i protagonisti della Storia con la maiuscola.

Mi ha fatto strano (la storia dei due medium diversi accaduta in parte anche con Come diventare sè stessi e End of Tour) poi guardare il documentario Risk, di Laura Poitras (regista premio Oscar di quel capolavoro assoluto che è Citizenfour), che visivamente ripercorre gli stessi luoghi ed eventi descritti da O’Hagan nella storia su Assange. Fa strano anche perchè Poitras, come O’Hagan, parte con un’idea in testa e si vede costretta a fermarsi, a rendersi conto che il film che sta girando (il libro che O’Hagan sta scrivendo) non è quello che avevano in mente. Che non possono più ignorare le contraddizioni per raccontare la storia, ma che “le contraddizioni sono la storia”.

Leggenda privata

La stiva e l’abisso

I demoni e la pasta sfoglia di Michele Mari

Michele Mari, o dell’usare la letteratura per lottare contro i propri demoni.

L’ho scoperto quest’anno, e si vede. È uno scrittore incredibile e ho una voglia matta di leggere tutto quello che posso.

Leggenda privata è un libro spaventoso per lingua e per immagini, il gusto dell’horror di Mari è qui sguinzagliato e liberissimo, a iscrivere con gli artigli un lessico familiare fatto soprattutto di silenzi e grugniti. L’infanzia di Michele è stata certamente sanguinosa, e credo che Enzo Mari (leggendario designer e nemesi dell’eroe) potrebbe tranquillamente ambire ad un premio come “Miglior Cattivo” nella classifica libraria del 2017.

Dopo questo (che è stato il grande caso editoriale di quest’anno) ho scelto altri due suoi libri che, a posteriori, non sono i più facili.

La stiva e l’abisso è, per quanto imperfetto, assolutamente sorprendente: mai pensato si potesse descrivere una gamba in cancrena in così tanti modi. La trama è completamente assurda, e non la scrivo perchè mi viene da ridere e gli farei un torto. È un libro da leggere per vedere come si possa scrivere oggi, per dove possa arrivare un romanzo di lingua italiana (oggi e ieri).

I demoni e la pasta sfoglia invece è una lunghissima sequela di articoli e recensioni che Mari ha pubblicato negli anni. Questo libro ha già tre edizioni, per tre case diverse (io ho letto la seconda, del 2010, Cavallo di Ferro). Nonostante la mole enorme, si affronta molto bene, aprendo a caso e godendosi le idiosincrasie e ossessioni mariane (marine?), le sue parole su scrittori che ama e odia.

L’unico peccato è che Mari non lo trovo mai nei negozi di libri usati.

It di Stephen King

Ok, ho circa vent’anni di ritardo, ma ci tenevo a leggerlo prima del film.

È un libro di una bellezza estrema, e tutto quello che la letteratura di fantasia dovrebbe essere. La trama è quasi perfetta, e nonostante King non sia la Campo ha una scrittura leggera e, in questo caso, mai banale. Ci sono sicuramente alcune cose un po’ incomprensibili (ho scoperto con piacere che anche Michele Mari (I demoni e la pasta sfoglia) non sopportava la tartaruga cosmica)(e poi, vogliamo parlare di quella scena?), e probabilmente il libro non ha mai visto un editor. Ma non importa.

Non ci sono tanti libri a cui si possono attribuire le parole di Borges, ma questo è uno di questi: è una delle forme della felicità, e sinceramente non trovo un complimento più bello.

Mi ha proprio fatto del male fisico finirlo (also, Beverly ❤)

Propizio è avere ove recarsi di Emanuel Carrère

Carrère che fa Carrère, ma è un Carrère prima di Carrère, un ritratto dell’artista da giovane, meno famoso. Un mosaico di interviste, reportage, articoli, che illustrano frantumato il volto di un autore presuntuoso, egocentrico e assolutamente fantastico. Mi è piaciuto molto.

Bestiario di Julio Cortàzar

Non me ne vorrà l’amico Andrea Meregalli, grande fan, ma questo è il mio primo Cortàzar, e non mi è piaciuto. Cioè, si capisce che è bravissimo, e qualche racconto mi è rimasto (i coniglietti…) Non è la prima volta che ci provo, forse non ci piacciamo e basta.

Gratitudine di Oliver Sacks

Uno degli ultimi libri dell’anno, regalatomi per Natale dai miei fratelli, e forse una mezzora scarsa di lettura… però è Sacks, e ho trattenuto a stento le lacrime. Il mondo ha perso veramente moltissimo. Da rileggere ancora, fra dieci, venti, cinquant’anni.

? di Antonio Sgobba

L’anno scorso avevo letto questo bell’articolo sulla Biblioteca di Babele e Google, che avevo molto apprezzato perchè per una volta la metafora era stata usata bene (la questione è un mio pallino particolare).

Con Antonio poi ci siamo scritti e seguiti su Facebook, e senza che io gli chiedessi niente mi ha gentilmente mandato il suo libro, per cui ci tengo a ringraziarlo pubblicamente.

Il libro è estremamente documentato, e ricostruisce qualcosa a cui non avevo mai pensato: una storia filosofica dell’ignoranza, del concetto di ignoranza. L’ignoranza, secondo Sgobba (e una pletora di illustri predecessori) non è tanto una mancanza di conoscenza, quanto semplicemente l’altro lato della stessa medaglia: non si dà l’uno senza l’altro. Questo è importante perchè la mitologia corrente della Silicon Valley vuole costruire invece un’utopia (distopia?) fatta di puro giorno, in cui ogni cosa illuminata e le tenebre del non sapere verranno scacciate via. Ma se la sfera della conoscenza, come davvero succede, si espande ogni giorno in un nero universo di ignoto, allora, necessariamente, questa sfera sarà a contatto con sempre più tenebre. Per quanto possiamo allargare l’universo conosciuto, sapremo sempre di non sapere, e sempre più cose.

Le conseguenze di questa piccola, cruciale verità le stiamo vivendo ora. Il libro, come dicevo, è molto documentato, e in alcuni punti troppo storico e filosofico per i miei gusti: in un certo senso, l’ho trovato molto ambizioso, che a volte è un pregio e altre volte un difetto.

Storia naturale della distruzione di Winfried G. Sebald

Inseguivo questo libro da tempo, se non altro per il titolo fulminante. Il libro affronta quello strano fenomeno di collettiva amnesia che colpì il popolo tedesco subito dopo la guerra, per cui non c’è mai stata letteratura (cioè racconto, memoria) dei bombardamenti subiti dalla stessa Germania durante quegli anni. Si parla di un milione di tonnellate di bombe, centinaia di città distrutte, migliaia di morti, milioni di sfollati. Sebald procede con piglio analitico e lucidissimo sguardo a indagare le ragioni e le caratteristiche di questo silenzio, affrontando in una serie di conferenze il problema. Dovevano, in origine, essere conferenze di poetica: in un certo senso, lo sono davvero.

Primo Levi di François Carasso

Dopo aver letto Il sistema periodico, l’anno scorso, ho deciso di esplorare meglio l’opera di Primo Levi. Questo è un saggio su di lui, ma ammetto che l’ho trovato noioso, spesso. Sto aspettando che mi cresca dentro il coraggio per l’opera-monstre di Marco Belpoliti, Primo Levi di fronte e di profilo, che è qualcosa a cui guardo con apprensione, ma anche speranza.

Tutto nasce da Il sistema periodico, appunto, e dalla sensazione, personalissima, che Levi sia ancora un classico che ha moltissimo da dirci.

Ho trovato la sua scrittura pacata, lucida e nitida un qualcosa di cui ho bisogno, e credo tutti quanti. È un’educazione alla ragione e al ragionamento, alla memoria, alla comprensione, al perdono, forse. Trovo pochissimi altri autori che possano scrivere come lui, e nessuno dalla suprema cattedra di cui Levi, suo malgrado, può fregiarsi. Per quanto siano complicati i nostri tempi, i suoi lo erano di più. È dunque una saggezza importante, che andrebbe riscoperta; non credo si possa chiedere molto di più ad uno scrittore.

Altri:

  • Storie di libri perduti di Giorgio Van Straten
  • L’etica hacker e lo spirito dell’età dell’informazione di Pekka Himanen
  • Sulla maestria di Junichiro Tanizaki
  • L’intellettuale militante di Michael Walzer
  • Van Gogh di Antonin Artaud
  • Nioque de l’avant-printemps, ovvero Cognizione del periodo che annuncia la primavera / Nioque de l’avant-printemps di Francis Ponge
  • Tutto è in frantumi e danza di Guido Maria Brera, Edoardo Nesi
  • Thinking, Fast and Slow di Daniel Kanheman
  • Umanistica digitale di Peter Lunenfeld, Johanna Drucker, Anne Burdick, Jeffrey Schnapp, Todd Presner
  • L’editore ideale di Piero Gobetti
  • Il lavoro intellettuale come professione di Max Weber