che poi – è qualcosa di strano e poco adatto ad essere detto – una delle chimere più longeve della mia vita è stata quella di “bastarsi”: bastarsi emotivamente, affettivamente, culturalmente. La chimera, laicamente monacale, di pretendere di stare bene un po’ dovunque, ma soprattutto a casa propria, da solo. Tutti abbiamo la fantasia romantica della clausura, dell’eremita, della capanna nel bosco e dell’essere contenti di un tavolo di legno, qualche libro, una mela, una serata a guardare il fuoco. C’è un germe di claustrofilia, di amore per le mura, per la solitudine, in ognuno di noi. È una fantasia tanto ubiqua quanto falsa, perché la stragrande maggioranza di noi si romperebbe le scatole dopo pochi giorni, abituati come siamo a tutto il resto – così infrastrutturale, questo resto, da essere invisibile, come sempre è l’infrastruttura. E infatti ci siamo rotti le scatole di stare in casa nostra dopo la prima settimana di canzoni al balcone. È quindi una fantasia da tenere a bada, di cui non bisogna fidarsi, ma che, chimere di autarchia a parte, può – teoricamente – essere addomesticata: il desiderio di diventare una persona che sta bene con sè stessa è un desiderio sano, se tenuto in equilibrio. Io solo non sono, siamo una coppia con un minuscolo mammifero che ogni giorno cresce ed evolve in quello che sembra proprio essere una persona vera, ma ricordo sempre quella citazione di Pasolini che dice l’indipendenza che è la mia forza, implica la solitudine che è la mia debolezza, citazione che mi veste meno bene oggi di quanto lo faceva anni fa, in cui solo lo ero davvero; ma che comunque è una verità grande come il cielo e ci racconta le due facce, la meravigliosa e la tremenda, di quella cosa titanica che è stare con sè stessi.
E ora che il mondo intero fa praticamente la vita che io ho fatto per anni, c’è del sollievo in tutta questa preoccupazione, forse un insensato ottimismo che sia una palestra utile per tante persone, ché lottare con sè stessi è necessario, per poi farci pace, anche temporaneamente. Ammetto con un po’ di vergogna che sapere che voi (voi tutti) non facciate niente di meglio, in quell’egoistico “mal comune mezzo gaudio” così adatto ad una società di felicità competitiva (apparente o reale, ma comunque da esibire sui social network, da moltiplicare tramite appositi filtri su instagram) mi solleva, soprattutto all’approssimarsi di un’estate in cui siamo inondati dalle foto delle vacanze altrui, che siamo costretti a vedere sempre quando noi siamo a lavorare. Mal comune mezzo gaudio: se non è invidia, è la sua cugina non più simpatica. Oscillo come un pendolo fra il non poterne più – desiderare nuovamente un lavoro per cui sono costretto a vestirmi e uscire di casa e mangiare fuorib – e la segreta speranza (a cui non credo neanche un secondo, ma che è una vocina perversa sempre presente) che questa cosa duri ancora a lungo. La mia claustrofilia, così amica della mia depressione, è una bestia dura da addomesticare.