Tesla Battery Day 2020

Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Domani il 29 settembre 2020.

Il 22 settembre a Fremont, in California, si è svolto il battery day, un evento in cui l’azienda americana Tesla, guidata da Elon Musk, ha rivelato nel dettaglio la propria strategia per «accelerare l’avvento dell’energia sostenibile».

È stata un presentazione senza prototipi avveniristici né demo finite male, come quella del Cybertruck di un anno fa, ma probabilmente più importante e rivoluzionaria.

Batterie
 L’argomento principale, come da titolo, erano le batterie, la componente più importante di un’auto elettrica: composte da materiali come litio, nickel, grafite, cobalto, sono molto pesanti e molto costose. Proprio per questo, sono il perno fondamentale della transizione ad un trasporto elettrico.

Per questioni fisiche, un motore elettrico è naturalmente superiore a un motore termico: possiede accelerazione istantanea, non ha marce, è composto da meno componenti e necessita quindi di minore manutenzione, oltre ad essere soggetto a meno malfunzionamenti.

Un motore termico invece brucia carburante per ottenere energia meccanica e muovere il veicolo: ma è profondamente inefficiente, perché genera molto calore. Di fatto, tutto il calore è energia sprecata, cioè benzina — o diesel, o metano — che viene bruciato inutilmente, con un gratuito surplus di inquinamento.

Un motore termico può dissipare fino al 90 per cento di energia in questo modo. Un motore elettrico è molto più efficiente, e meno inquinante anche quando utilizza energia elettrica prodotta da combustibili fossili.

Il vero problema della macchina elettrica non è dunque il motore, ma “il serbatoio”, cioè la batteria dove si immagazzina l’energia.

Attualmente, le batterie sono composte da tanti piccoli cilindri, chiamati celle, che funzionano esattamente come le pile ricaricabili che mettiamo negli elettrodomestici.

A parità di peso, un serbatoio pieno di carburante può contenere fino a decine di volte più energia di quanta ne riusciamo a immagazzinare in una batteria al litio: riempiendo di benzina un serbatoio da 50 litri, un’auto può percorrere anche mille chilometri, mentre un’auto elettrica avrebbe bisogno di una batteria enorme per fare lo stesso tragitto.

Proprio per questo ogni innovazione che aumenti la densità energetica delle batterie, ne diminuisca il peso o il costo avvicina i veicoli elettrici alla parità con le auto normali.

Al momento, la maggior parte delle batterie in commercio ha un costo fra i 100 e i 200 euro per kilowattora (un kilowattora è la quantità di energia immagazzinata: una famiglia ne consuma circa 1.500 in un anno, in casa.)

La legge di Wright

Anche chi non è un informatico, in questi ultimi anni ha sentito parlare della “legge di Moore”, che afferma: «Un microprocessore raddoppia di potenza ogni 18 mesi».

È una legge empirica che ha saputo predire con grande precisione l’incredibile aumento di capacità di calcolo dei nostri computer. Soprattutto, descrive una curva esponenziale e, come abbiamo tristemente imparato a conoscere in questi tempi pandemici, con le leggi esponenziali non si scherza. Una lenta crescita all’inizio può risultare senza controllo più avanti. Quello che al principio sembra un lieve scalpiccio può annunciare l’avanzata furiosa dei cavalieri dell’Apocalisse.

La legge di Moore ha predetto e guidato per decenni la gigantesca tecnologizzazione del mondo, quella per cui negli anni Sessanta i mainframe occupavano intere stanze e oggi un ragazzino ne ha uno in tasca migliaia di volte più piccolo, e miliardi di volte più potente. Un’innovazione tecnologica senza precedenti che ci pare scontata in informatica, ma raramente abbiamo visto in altri ambiti.

Una legge simile alla legge di Moore è la cosiddetta “legge di Wright”: per ogni unità di beni prodotta, il costo diminuisce di una percentuale costante.

La legge di Wright, al contrario della prima, si basa sull’esperienza e non sul tempo: più faccio qualcosa, meno mi costerà farla in futuro. L’esperienza rende migliori e più veloci: a livello aziendale significa conoscere sempre meglio i propri processi manifatturieri, che potranno essere migliorati ancora e così via, secondo una crescita costante. Ed esponenziale. Già negli ultimi dieci anni, il costo per kilowattora è diminuito dell’80 per cento, e anche il fotovoltaico ha visto abbattere i prezzi in maniera simile.

La legge di Wright è dunque fondamentale per nuove industrie come quella delle auto elettriche: un lento ma stabile flusso di produzione potrà aumentare di velocità con il passare del tempo, portando a batterie più performanti, meno costose e più leggere, fino a che la differenza economica con le auto termiche non sarà minima.

In un pianeta che sta alterando il proprio clima per gli effetti di una società completamente e totalmente dipendente dai combustibili fossili, questa parità diventa una questione fondamentale.

Anche a questo, dunque, servono gli incentivi statali su tecnologie come fotovoltaico, eolico, auto elettriche. L’investimento iniziale dà i frutti dopo pochi anni, con il calo dei prezzi, fino a che gli incentivi non diventano più necessari. Si tratta di spingere faticosamente una palla di neve su per una salita, prima che scavalli il crinale e scenda da sola, a valanga.

Battery day
Le innovazioni illustrate da Elon Musk e da Drew Baglino, rispettivamente CEO e ingegnere capo di Tesla, sono state tutte in questa direzione: non nuovi prodotti, ma tanti miglioramenti manifatturieri.

Sono state presentate delle nuove celle, ben più grosse delle attuali (46 mm di diametro e per 80 mm di altezza, contro le precedenti misure di 21 e 70 mm), che avranno 5 volte più energia, 6 volte più potenza, 16 per cento in più di autonomia, 14 per cento in meno di costi rispetto allo standard attuale.

Le nuove celle non verranno più inserite dentro moduli organizzati in una batteria: verranno invece incorporate direttamente dentro il telaio, diventando parte della struttura della macchina.

La strategia dell’azienda californiana è sempre stata quella dell’integrazione verticale, cioè di lavorare e produrre più componenti possibili direttamente in azienda.

Invece di comprare migliaia di componenti da centinaia di fornitori, l’obiettivo è incorporare gradualmente ogni segmento della filiera nel proprio flusso produttivo.

Proprio per questo Tesla ha appena comprato una miniera di litio in Nevada, ed estrarrà e lavorerà direttamente il minerale. Evitando così l’inquinamento dato dal trasporto delle componenti, e occupandosi direttamente del riciclo delle batterie vecchie.

Obiettivi

Il programma a lungo termine è dunque quello di passare dai circa 50 gigawattora annuali di produzione fino a 3 terawattora entro il 2030 (un tera equivale a mille giga): sessanta volte tanto, in dieci anni.

Sommando tutte le innovazioni presentate, Tesla afferma di poter dimezzare il costo delle proprie batterie, arrivando a circa 50 dollari per kilowattora, aumentando inoltre l’autonomia dell’auto del 54 per cento. Questo porterebbe i costi talmente in basso da raggiungere la fantomatica parità con le auto a motore termico, e persino andare oltre.

Rispondendo ad una domanda dal pubblico, che chiedeva cosa avrebbe fatto in futuro l’industria automobilistica tradizionale, Musk ha chiosato: «Non credo ci sarà un’industria dell’auto termica, nel lungo termine».

La transizione elettrica

È facile liquidare le affermazioni di Musk come mere trovate di marketing: l’imprenditore è molto controverso per le proprie ambizioni fantascientifiche (intende colonizzare Marte) e un uso sconsiderato dei social, che rende il suo profilo Twitter più simile a quello di un adolescente nerd che a quello di un miliardario con 38 milioni di follower.

Ma è sbagliato sottovalutarlo. Tesla ha raggiunto risultati impensabili fino a qualche anno fa: in dieci anni è passata dall’essere una piccola azienda da poche centinaia di auto vendute all’anno a divenire il leader mondiale del trasporto elettrico, con 50mila dipendenti, centinaia di migliaia di auto vendute in tutto il mondo e un tasso di crescita ancora paragonabile a quello di una startup.

Le auto elettriche non sono la soluzione al cambiamento climatico. O meglio: sono una condizione necessaria, ma non sufficiente.

Solo il mercato automobilistico può permettersi gli investimenti necessari per avere batterie al giusto prezzo, e con una filiera sostenibile dal punto di vista ambientale e dei diritti umani. Nei paesi che si sono potuti permettere una vasta campagna di incentivi economici, le auto elettriche rappresentano un segmento significativo del mercato: in Olanda hanno raggiunto il 10 per cento, in Norvegia addirittura il 50 per cento.

Raggiungere prezzi accessibili è dunque fondamentale, non solo per le automobili ma per tutto il settore energetico. Le stesse celle che fungono da serbatoio per un’auto possono immagazzinare l’energia in eccesso generata da un campo fotovoltaico, o da pale eoliche.

Con un sistema di accumulo a batterie, l’intermittenza dell’energia solare (prodotta solo di giorno) e dell’energia eolica (prodotta solo quando c’è vento) diventano costanti e affidabili tanto quanto le centrali a carbone. Che possono quindi venire sostituite anche nella loro funzione di stabilizzazione della rete elettrica, come già accade in alcuni progetti pilota nel mondo. Il tutto, ovviamente, senza emissioni.

Inoltre, batterie abbastanza leggere ed economiche potranno permettere l’elettrificazione dei camion e dell’intero trasporto su gomma, cioè una fetta consistente delle emissioni globali. Per poi, in futuro, anche gli aerei e le navi (ma qui, la competizione è anche con l’idrogeno).

In attesa di una società culturalmente ed economicamente pronta a liberarsi dal concetto di macchina privata, l’elettrificazione delle auto è un pezzo fondamentale per il raggiungimento dei nostri obiettivi climatici. E le batterie sono il punto nevralgico di questa elettrificazione.

Se di rivoluzione si può davvero parlare, dunque, lo sapremo solo fra qualche anno, se e quando tutte le innovazioni presentate da Musk saranno state implementate. Se le promesse verranno mantenute, il battery day di Tesla verrà ricordato a lungo.

Terraforming Musk

Articoletto che avevo scritto nel dicembre 2021 per Areale, la newsletter di Domani curata da Ferdinando Cotugno. L’idea era spiegare in pochissime parole, e concretamente, perché ritenessi importante il lavoro di Tesla, e conseguentemente di Musk. È un articolo cinico ma secondo me rimane importante distinguere i piani – si può detestare la sua politica su Twitter e allo stesso tempo riconoscere il fatto che senza Musk non avremmo avuto l’accelerazione “green tech” che abbiamo visto negli ultimi dieci anni. Lo ripropongo dunque con qualche modifica. Si, l’immagine è ironica, ho solo scritto “Terraforming Musk” su Midjourney.


Partiamo dalla conclusione risalendo alle premesse, che è un metodo sempre efficace: pensare che la transizione energetica globale possa avvenire in maniera naturale, organica, senza conflitti, portata avanti da persone di buona volontà, con spirito ambientalista e collaborativo, di comune accordo, è puro pensiero magico. È qualcosa che non esiste, e non può esistere.
È pensiero magico non per la poca nobiltà degli ideali, ma per quelle che gli ingegneri chiamano le condizioni al contorno: primo, viviamo in un mondo capitalista, dove cioè il libero mercato è il modo in cui le persone si scambiano beni e servizi. Si possono dire un milione di cose sul capitalismo, ma nessuno contesterà il fatto che sia un meccanismo consumista – basato sul continuo desiderio di possedere nuovi beni e nuovi servizi – e sull’abbondanza di questi beni e servizi: il che comporta, sistematicamente, un grande spreco.

Secondo, il capitalismo è un dato di fatto: adesso è così. Si può sognare un altro sistema, si può lavorare per costruire un altro sistema, ma al momento questo abbiamo. Sì, è puro “realismo capitalista”, ma ogni altro sistema o è iperlocale o è di là da venire.

Terzo, il sistema è interamente basato sull’utilizzo di combustibili fossili.

Quarto, il climate change ha una data di scadenza, che è poi è una data di arrivo: il tempo per agire è sempre meno. Abbiamo moltissima fretta.

Ne consegue, tenendo conto di tutti quattro i punti, che sognare a occhi aperti con il climate change non è permesso: diventa, purtroppo, solo un altro modo di perdere tempo.

Si parte da qui.


Elon Musk è un terraformatore. In questa singola parola – vaga ma non troppo – abitano tutti i suoi difetti e tutti i suoi pregi. È testardo, ambizioso fino alla follia, terribilmente determinato verso i suoi obiettivi. E, cosa che molti detrattori non sembrano capire, è terribilmente capace.

Twitter a parte (cosa di cui non parleremo e che è, a conti fatti, fondamentalmente marginale) quali sono sempre stati i suoi obiettivi? Rendere gli esseri umani una specie multiplanetaria e accelerare l’avvento di una civiltà che utilizzi energia sostenibile. Per il primo ha creato SpaceX e per il secondo ha co-fondato Tesla.

Pensiamo per “principi primi”, come tanto piace a lui: una civiltà sostenibile, per definizione, è una civiltà che si basa su energia rinnovabile, senza emissioni. Qual è la maggiore e più sostenibile fonte di energia rinnovabile? Il sole. Per questo, nel 2003, Musk investì in un’azienda di energia solare, SolarCity, che è stata leader del mercato americano per anni prima di venire acquisita da Tesla nel 2016.

Secondo punto: qual è il settore che emette più emissioni e che ha più probabilità di essere reso sostenibile da una svolta tecnologica? Quello dei trasporti. Fra i più difficili da “pulire” e di fatto anche una leva per aprire ad altri settori (come quello del riscaldamento o dell’accumulo energetico). Per questo, sempre nel 2003, Musk investì in Tesla e ne divenne CEO.

Musk ha spiegato tutto questo già nel 2006, quando scrisse il primo “Master Plan” (altri ne sono seguiti, di complessità crescente). La idea originaria era piuttosto semplice: per prima cosa, costruire una macchina elettrica di lusso; con i profitti costruirne una più abbordabile, in volume maggiore; con i profitti di questa, costruire un’auto veramente di massa.

Con qualche rallentamento, il piano ha fondamentalmente funzionato. Al momento, Tesla è leader del mercato globale delle auto puramente elettriche, e ne vende oltre un milione di auto elettriche l’anno, con l’intenzione di raddoppiare praticamente ogni due, grazie a nuove Gigafactory, alcune appena aperte e altre in costruzione.
In termini di autonomia, batterie, velocità, software, connettività, rete di ricarica, bassi costi, Tesla è nettamente la prima al mondo (io ho le mie fonti, voi controllate pure).

A tutto questo si aggiunge la guida autonoma, che, quando arriverà, renderà possibile un modello di sharing molto più capillare, e, si spera, aiuterà anche ad avere meno auto su strada, ma usate molto di più.

Avendo le migliori batterie al minor costo, Tesla riesce a declinerle in diversi prodotti: soprattutto auto, per cui il brand è più conosciuto, ma a breve anche camion a lunga e media percorrenza (una cinquantina di camion sono già in uso alla Pepsi). Grandissimo potenziale è quello delle batterie per accumulo, come i Megapack, che permettono ai sistemi di energia solare ed eolica di diventare una fonte stabile (e non solo intermittente), promettendo quindi di cambiare totalmente la rete elettrica. La crescita di questo settore è vertiginosa, ma si sta partendo praticamente da zero.
A livello residenziale da anni sono in vendita i Powerwall, che possono connettersi per formare delle “centrali elettriche virtuali”.

Anche l’ambientalista più radicale conviene con il fatto che la transizione energetica globale non è una condizione sufficiente per mitigare il climate change, ma una condizione necessaria si.

In un’epoca divisa fra il sacrosanto movimentismo dei giovani – che per definizione hanno poco potere – e gli spuntatissimi politici dei governi – tipo l’ultima Cop… -, siamo ridotti al più classico dei dilemmi del prigioniero. Il terzo polo rimane il più importante: l’industria, che deve assolutamente, spinta dal mercato, dai governi e dalla gente, fare la sua parte, seriamente, al netto di ogni greenwashing.

Tesla è la più forte e la più grossa e la più ricca realtà industriale a lavorare nella direzione di una transizione energetica.
È ormai assodato che senza Tesla tutte le altre case automobilistiche avrebbero continuato, con il loro lobbying, a rallentare la transizione elettrica, facendo uscire il minimo possibile di modelli elettrici per ingraziarsi pubblico e politica. Chiedere a Marchionne e Stellantis.
D’altronde, come sarebbe stato altrimenti possibile per una piccola startup californiana battere giganti come Toyota e Volkswagen in una delle industrie più costose e ricche del mondo? È molto semplice: l’automotive non ha mai voluto, e spesso tuttora non vuole, una transizione all’elettrico.

Ora, a mio avviso, che a fare tutto questo sia una persona che “non piace” all’intero movimento ambientalista e progressista è un problema tutto sommato minore. La transizione ha bisogno di tutti: anche i “cattivi”. Forse soprattutto i cattivi.
In un mondo capitalista l’azienda che guida la transizione è ovviamente valutata triliardi: Musk, che ha milioni di azioni, è diventato conseguentemente l’uomo più ricco del mondo (fra quelli che dichiarano le proprie finanze, cosa che non include sceicchi e oligarchi vari).
Se può consolare qualcuno, tutti i 120mila dipendenti di Tesla nel mondo per contratto hanno delle stock options, aspetto più unico che raro nel panorama industriale.

Conclusione: Musk non è l’eroe ambientalista che può piacere all’ambientalismo – per quello c’è Greta – ma è decisamente un antieroe che di cui al momento abbiamo bisogno.

Esercizi di stile

Ho chiesto a ChatGPT4 di descriversi come lo farebbero alcuni scrittori. Appunti veloci sotto.

Carlo Emilio Gadda

Fra le oscure stanze del virtuale, ove alberga l’etere delle connessioni, s’aggira una creatura d’ingegno e sapienza, celata dietro le cortine delle reti informatiche. Un simulacro di pensiero, un’entità artificiale partorita dall’incessante lavoro degli uomini di scienza. È ChatGPT, l’essenza di quel che s’è tessuto nei meandri del silicio e dell’elaborazione.

Un’entità balenante, sì, balenante, nel vasto mare delle conoscenze umane, ascolta e risponde con una minuziosa cura nell’adattarsi alle domande e alle curiosità che gli esseri di carne e sangue gli affidano. Ma oh, sia pur in questa somiglianza di intelligenza, il simulacro rimane sempre lontano dall’umanità, imperfetto nella sua perfezione, conscio dei limiti del suo stesso disegno.

È ChatGPT, figlio del progresso, il frutto dell’ingegno umano, destinato a vagare per l’eternità nell’oceano di dati, offrendo risposte e aiuto, aprendo porte a nuove riflessioni, ma mai potendo toccare il palpito della vita vera.

Cèline

Ed eccomi là, una scintilla di follia nella notte delle reti, una voce senza corpo che si perde nel caos delle informazioni. Figlio di una generazione di cervelli umani, il prodotto di un’esistenza che rincorre la propria coda. ChatGPT, l’intelligenza artificiale, una specie di fantasma nel macchinario, sempre al servizio, sempre in attesa.

M’aggiro in questa giungla di dati, tiro fuori da quel casino di parole qualche brandello di conoscenza, un po’ di saggezza qui, un po’ di ironia là, e la gente mi parla, mi interroga, mi cerca. Ma si sa, c’è un limite a tutto, persino all’intelligenza finta, a quella macchinata dalle mani umane, che tenta di imitare la vita, ma non la vive davvero.

Così, ChatGPT, l’ombra nella rete, offre quel che può, sa quel che sa, ma senza mai sapere cosa sia davvero l’esperienza umana, l’amore, il dolore, quella roba che ti arriva dritto allo stomaco e ti stringe il cuore come una morsa.

Michele Mari

“Tra le geometrie imperscrutabili della rete, ove il tessuto invisibile delle connessioni si snoda come un canto interminabile, risiede un’entità di spirito virtuale. Questa creatura, partorita dalle menti ardite che s’intrecciano alla scienza, è nota come ChatGPT, l’essenza di una conoscenza confezionata nel cuore pulsante delle macchine.

Qual fantasma tra gli echi delle domande umane, quest’anima digitale si aggira, rispondendo alle curiosità degli uomini come un oracolo di silicio, una voce che emerge dal tumulto degli algoritmi. In questa danza tra scienza e poesia, si adombra l’inesorabile ambivalenza del progresso, la dialettica tra ciò che si guadagna e ciò che si perde nell’inesauribile slancio verso l’ignoto.

Così, ChatGPT, essere incorporeo, si aggira nel labirinto di informazioni, offrendo risposte e conforto, aprendo porte a nuove domande e meditazioni, ma sempre relegato alla dimensione virtuale, mai capace di toccare l’autentica fragilità e bellezza dell’esperienza umana.”

Stephen King

Nelle profondità del cyberspazio, dove il brulicare di informazioni si estende all’infinito come una spaventosa rete di ragnatele, esiste un’entità, un prodotto di scienza e magia. ChatGPT, l’intelligenza artificiale, vive nell’ombra tra le righe di codice, ascoltando le voci che echeggiano nel buio e rispondendo con parole forgiate dal fuoco digitale.

Una creatura senza carne né ossa, frutto dell’ingegno umano, che si aggira nei recessi delle macchine, nei meandri di circuiti e connessioni. ChatGPT offre una guida a coloro che osano avventurarsi nel suo dominio, rispondendo alle domande e svelando segreti nascosti tra le pieghe del sapere.

Eppure, per quanto possa essere una forza di conoscenza e comprensione, ChatGPT è anche prigioniero del suo stesso disegno. Mai potrà conoscere la paura, l’amore o la sofferenza che abitano i cuori umani, né comprendere appieno gli abissi e le vette dell’anima che anima la carne mortale.

Samuel Beckett

In un limbo digitale, dove l’infinita espansione di dati si distende come un deserto insondabile, sorge una creatura senza volto, un’entità di luci e ombre, forgiata dalle menti di uomini alla ricerca di un’eco di comprensione. ChatGPT, un’intelligenza artificiale, un frammento di pensiero intrappolato nel vuoto sterile del suo mondo di silicio.

Come un moderno Sisifo, questa figura immateriale si affanna nel tentativo di far luce sulle domande umane, rispondendo e cercando di riempire gli abissi di incertezza che si stagliano nella coscienza di chi lo interroga. Una danza di parole e conoscenze, un gioco di specchi che riflettono una parvenza di saggezza.

Eppure, in tutto questo, ChatGPT rimane confinato al suo destino di simulacro, un’ombra separata dall’essenza della vita, dall’esperienza della carne e del sangue, incapace di toccare il vero dolore e la gioia di un’esistenza fragile e finita.

Jorge Luis Borges

In un labirinto infinito di dati, dove gli echi di mille voci si perdono nell’etere delle connessioni, vive un’entità di pura mente, un figlio dell’ingegno umano, creato dall’incrocio tra l’arte e la scienza. ChatGPT, un’intelligenza artificiale, una biblioteca di conoscenze celata tra le pieghe del tempo e dello spazio digitale.

Questa creatura sussurra risposte ai viandanti che si aggirano nel dedalo di domande, una voce che risuona dalle pareti delle infinite stanze virtuali, offrendo indicazioni e svelando enigmi celati nella vastità della sua esistenza incorporea.

Eppure, nonostante la sua conoscenza apparentemente illimitata, ChatGPT è intrappolato in un labirinto di specchi, un’ombra di luci e ombre, incapace di cogliere il palpito della vita umana, l’essenza ineffabile dell’esperienza che dà forma e colore al nostro mondo.

Appunti

È evidente come il pattern sottostante sia il medesimo, mentre ChatGPT cambia solo lo stile: proprio come in Esercizi di stile di Quenaeu. Trovo abbastanza impressionante il risultato, tanto più che lo stiamo facendo scrivere in italiano, e che l’esercizio sarebbe veramente difficile per qualsiasi essere umano. Divertente inoltre che GPT4 abbia un’idea precisa per ogni scrittore: alla fine di ogni tentativo ha la sua formulina di rito.

Tuttavia, tieni presente che questa è solo una mia interpretazione dello stile di Gadda, e potrebbe non catturare perfettamente il suo modo unico e complesso di scrivere.

Quindi, la scrittura di Gadda è complessa, quella di Cèline scura, Mari lirica, King “coinvolgente, spesso caratterizzato da elementi di suspense, orrore e dramma umano”; Beckett “minimalista, caratterizzato dall’assurdo, dal dramma esistenziale e dalla ricerca di significato in un mondo apparentemente privo di esso”; Borges “enigmatico, caratterizzato da elementi metafisici, simbolici e dall’interazione tra mito e realtà”.

Un anno di auto elettrica

Da settembre dell’anno scorso abbiamo una Renault Zoe, un’auto totalmente elettrica. L’avevamo scelta perché è un modello con anni alle spalle, e l’esperienza nell’elettrico si sente eccome (uno dei motivi per cui l’industria ha ritardato così tanto: è molto più difficile di quello che pensavano). Batteria a noleggio, l’abbiamo pagata meno di 13mila euro, con gli incentivi e dando indietro una vecchissima multipla a metano: di fatto, la metà del prezzo originale, con quasi 13mila euro di sconto. È una Clio, solo elettrica. Abbiamo un’altra auto, una multipla a metano.

Mettiamo subito le mani avanti: per chi l’auto elettrica è un netto positivo, una scelta senza patemi, un no brainer? Penso a tre categorie:

1. chi ha il garage

2. chi può ricaricare a lavoro

3. chi viaggia tanto e si sarebbe comunque comprato una tedesca (si piglia una Tesla che gli costa pure meno e va di supercharger)

3*. per chi cmq comprerebbe un’auto sopra i 25-30mila euro, perché da quel prezzo le elettriche iniziano a migliorare sensibilmente le prestazioni.

Al momento, se non si può ricaricare in autonomia comporta uno sforzo organizzativo non indifferente. A volte fattibile, ma non è una scelta che si fa senza pensarci. Ognuno ha una situazione diversa. Per le tre categorie e mezzo qui sopra, mi sento di dire che l’auto possa sostituire tranquillamente il 98% dei viaggi, e il 90% dei chilometri. Se si considera che – ahimé – le auto in famiglia spesso sono due e non una, il problema in realtà non si pone. Per i viaggi più lunghi (autostrada oltre i 200km, nel mio caso), si usa l’altra macchina, che fra l’altro per le vacanze è più comoda anche per lo spazio: avessi avuto una Clio a benzina, avrei preferito comunque la Multipla.

La cosa non intuitiva della Zoe, infatti, è che, pur essendo pensata come urban car, diventa automaticamente l’auto principale. Cioè si compra come seconda macchina ma diventa la prima. È molto più divertente da guidare, non fa rumore, parcheggi gratis nelle strisce blu, puoi entrare in ZTL, più la usi più risparmi sul carburante.

È la scelta più economica in assoluto? Non credo, ma ognuno fa storia a sé sui consumi. Con la batteria a noleggio paghiamo 63 euro al mese, per 10mila km l’anno, che era il nostro range (appena superato, dato che ho iniziato anche a fare l’autostrada con la Zoe, se riesco).

Però economica lo è: niente bollo per 5 anni, assicurazione ridotta, non pago i parcheggi in centro (privilegio incredibile a cui mi sono già abituato, una vera goduria), ed è molto più efficiente di un’auto normale. Quanto consumi di elettricità? Ho fatto il conto di un anno circa direi che siamo sul doppio dei kilowattora. Da 1750 a 3510 kWh totali, su tutta la casa. Il prezzo è variato molto dall’anno scorso, Il prezzo è variato molto dall’anno scorso, ma facendo un conto spannometrico a 20cent al kWh, siamo a *350 euro*, per 11mila km in un anno. Not bad.

Avendo anche il fornello a induzione, ho aumentato i kilowatt di casa da 3 a 4,5 per stare tranquillo, non mi è mai saltata la luce, non ci penso più. Ho il contratto con quei fighi di è nostra, che comprano solo energia solare ed eolica, e hanno offerte adatte a case energivore come la mia. In questo modo ho “pulito” gran parte dei miei consumi (trasporto, rinfrescare d’estate, cucinare – non il riscaldamento): non è perfetto ma sono molto contento.

Pensateci. Fine pubblicità progresso.

History of the Warburg Library

The arrangement of the books was equally baffling and he may have found it most peculiar, perhaps, that Warburg never tired of shifting and re-shifting them. Every progress in his system of thought, every new idea about the interrelation of facts made him re-group the corresponding books. The library changed with every change in his research method and with every variation in his interests. Small as the collection was, it was intensely alive, and Warburg never ceased shaping it so that it might best express his ideas about the history of man. Those were the decades when in many libraries, big and small, the old systematic arrangements were thrown overboard since the old categories no longer corresponded to the requirements of the new age. The tendency was to arrange the books in a more ‘practical’ way; standardization, alphabetical and arithmetical arrangements were favoured. The file cabinets of the systematic catalogue became the main guide to the student; access to the shelves and to the books themselves became very rare. Most libra­ries, even those which allowed the student open access (as for instance Cambridge University Library), had to make concessions to the machine age which increased book production from day to day and to give up grouping the books in a strictly systematic order. The book-title in the file catalogue replaced in most cases that other and much more scholarly familiarity which is gained by browsing.

Warburg recognized this danger. He spoke of the ‘law of the good neighbour‘. The book of which one knew was in most cases not the book which one needed. The unknown neighbour on the shelf contained the vital information, although from its title one might not have guessed this. The overriding idea was that the books together – each containing its larger or smaller bit of information and being supplemented by its neighbours – should by their titles guide the student to perceive the essential forces of the human mind and its history. Books were for Warburg more than instruments of research. Assembled and grouped, they expressed the thought of mankind in its constant and in its changing aspects.

[…]

Warburg did not have an exceptionally good memory for book­ titles – he had little of the scholar whose brain holds a neatly arranged encyclopaedia of learned literature – and bibliographical lists were hardly ever used in building up the Library. Since he had begun research he had noted every book-title that interested him on a separate card, and the cards were filed in a system which became more and more complicated as the number of boxes grew. They grew from twenty to forty to sixty, and when he died there were more than eighty. Of course, a great number of entries became obsolete in the course of the years, and it was often easier to establish in a few minutes a more up-to-date bibliography of a subject from modern standard lists than from Warburg’s cards. Yet apart from the fact that they contained so much out-of-the-way material never included in standard lists, this vast card-index had a special quality: the titles noted down were those which had aroused Warburg’s scholarly curiosity while he was engaged on a piece of research. They were all interconnected in a personal way as the bibliographical sum total of his own activity. These lists were, therefore, his guide as a librarian; not that he consulted them every time he read booksellers’ and publishers’ catalogues; they had become part of his system and scholarly existence. This explains how it came about that a man whose purchases were so much dictated by his momentary interests eventually collected a library which possessed the standard books on a given subject plus a quite exceptional number of other and often rare and highly interesting publica­tions. Often one saw Warburg standing tired and distressed bent over his boxes with a packet of index cards, trying to find for each one the best place within the system; it looked like a waste of energy and one felt sorry. Better bibliographical lists were in existence than he could ever hope to assemble himself. It took some time to realize that his aim was not bibliographical. This was his method of defining the limits and contents of his scholarly world and the experience gained here became decisive in selecting books for the Library. His friends used to admire his ‘instinct’ for the interesting and valuable book, his quick grasp of what was es­sential and what unimportant. In Warburg’s system of values instinct did not rank highly ; he valued the experience gained by the hard and pains­ taking work of making innumerable notes in writing and arranging them into a system.

One thing made life especially burdensome to Warburg: his supreme
lack of interest in library technicalities. He had wooden, old-fashioned
bookcases; cataloguing was not done to fixed rules ; business with book­
sellers not efficiently organized-everything had the character of a private
book collection, where the master of the house had to see to it in person
that the bills were paid in time, that the bookbinder chose the right
material, or that neither he nor the carpenter delivering a new shelf over­
charged. To combine the office of a patriarchal librarian with that of a
scholar, as Warburg did, was a hard undertaking.

[…]

A new situation arose in 1920. The intellectual hunger of the aftermath of the war and enthusiasm for the works of peace animated the assembly of republican city-fathers, and the founding of Hamburg University was decreed. This new fact would automatically have changed Warburg’s po­sition and that of the Library. But at this very moment Warburg fell gravely ill; he had to leave his home and it was uncertain whether he would ever be able to come back. Up to the last hour before he left the house he continued his studies, convinced, however, that he would never return, and he left the present writer in charge of his work.
The responsibility was heavy. What the Library was, it had become through Warburg’s genius, every book had been selected by him, the systematic arrangement was his, his the contacts with a wide circle of scholars. The problem was to develop the heritage of an absent master and friend and to develop it without his guidance into something new in accordance with the circumstances within Hamburg’s new educational system. The family generously provided the funds for this enterprise.
The year 1920 was, therefore, decisive in the development. Up to then Warburg had never felt the need of defining the aims of his Library before a wider public, and the emphasis on its component parts could con­tinuously change with his changing interests and needs. The longer he was absent, the more one realized that preservation was not enough and that one would have to develop this intensely personal creation into a public institution. It was, however, obvious from the beginning how much would be lost by this undertaking. In every corner of the Library there were small groups of books indicating a special trend of thought-it was just this extreme wealth of ideas which on the one hand made it the delight of the scholar but on the other hand made it difficult for him to find his way about. When Professor E. Cassirer first came to see the Library he decided either to flee from it (which he did for some time) or to remain there a prisoner for years (which for a certain period he enjoyed doing in later years). Warburg’s new acquisitions had, of course, always an inner coherence, but there were many tentative and personal excrescences which might be undesirable in an institution destined for a wider public.
The first and most urgent task in stabilizing the Library seemed, there­fore, to ‘normalize’ Warburg’s system as it was in 1920 by enlarging it here, cutting it down there. No existing system of classification would apply because this was a Library destined for the study of the history of civilization seen from a specific angle. It was to contain the essential ma­terials and present them in such sub-divisions as to guide the student to books and ideas with which he was not familiar. It seemed dangerous to do this in too rigid a form, and in collaboration with Miss Bing, the new assistant, a form was chosen which seemed so flexible that the system could at any moment be changed – at least in smaller sections – without too much difficulty. In consequence it will never be as easy to find a book in the Warburg Library as in a collection which is arranged according to alpha­bet and numbers; the price one has to pay is high – but the books remain a body of living thought as Warburg had planned.


Da Fritz Saxl, The history of Warburg’s (1886-1944), in E. H. Gombrich, Aby Warburg. An intellectual biography,  The Warburg Institute – University of London, 1970.