Io mi sono completamente perso i Mazzy Star: nel ’94 avevo nove anni, troppo presto, troppi pochi amici con gusti musicali decenti per poterli intercettare. Li ho ignorati per vent’anni.
Finchè una manciata di anni fa l’algoritmo di Spotify mi ha guardato negli occhi e senza dire nulla mi ha allungato un paio di canzoni – questa, Into dust – che da sole, in un secondo, con tre accordi, non sono state meno che una teofania: la definizione esatta di una generazione, di un’identità, il ritratto del ragazzino che sono stato e sarò sempre (di quel ragazzino che siamo tutti), il ricordo di quelle mani ancora bambine che allungavano le maniche e si mettevano i capelli dietro l’orecchio; la memoria precisa della scoperta di non esserlo più, bambino – e cosa si era non si sapeva; la fotografia di quei tramonti e il cielo di un blu inenarrabile quando la primavera stava iniziando e ti raccontava di un mondo nuovo, tremendamente eccitante e spaventoso: quel blu che l’universo ti stava dicendo qualcosa, proprio a te. L’esatto colore della nostalgia. Ognuno di quei tramonti – e poi, aurore -, ha, per me, il nome di un amore, quegli amori tremendi che solo l’adolescenza ti può infliggere. Se chiudo gli occhi e ci penso, ancora smetto di respirare.
Cerco ancora quel blu, non l’ho più trovato. Però lo rivedo tutte le volte che li ascolto. Ciao David, grazie per gli accordi giusti, fanno ancora male.