«Alticcio – come spiegartelo, principessa? – diamine! Alticcio… Non lo so, immaginatela!»
«Sì… ma… M’immagino cosa?»
«Immagina un fiume di vento… Immagina una città tutta in verticale fatta solo di torri, torri immense e ondeggianti, alte più di cento metri e piantate nel bel mezzo della corrente! Immagina battifredi in pietre e legno, cattedrali monotorre cinte da campanili, immagina fareoli che la notte ululano rispondendosi l’un l’altro! Immagina castelli d’acqua, palazzi in vetro arroccati su picchi di marmo! Immagina capanne appollaiate su alberi maestosi, con tanto di scale a chiocciola tutt’intorno! Immagina vertiginose colonne non più spesse di un corpo, con monaci seduti in cima, i famosi stiliti, pronti ad arringarti non appena imbocchi un ponticello di corda! Pensa un po’ che vita conducono i nobili che abitano le torri, lassù – sono chiamati torraioli -, nobili che intrigano, che dragano e dormono là in alto, sfiorando il cielo e senza mai toccare terra. Si muovono con barcarole, palloni d’aria calda, ali volanti e velibici.»
«Velibici?!?»
«Certo! Quando non usano i ponti sospesi, non saltano di terrazza in terrazza, non scivolano da torre a torre sospesi a un cavo, seduti in panieri di vimini.»
«Addirittura! Che cosa non ti inventeresti!»
«E in basso, ascoltami bene, ragazza: in basso, ai piedi di queste torri, striscia e lavora la plebe, il popolino. I raschiatori. In basso si estende il regno polveroso dei tuoi amici ærosetacciatori, che filtrano e setacciano il vento dalla gola al delta… In basso ci sono solo i paesanotti, i trogloditi, e gallerie interrate e qualche malga con archi a spinta, nel letto del Torvento. In basso si trova soprattutto ciò che sostiene i nobili per aria, ciò che sostiene palloni e barcarole, frivolezze e vita di palazzo…»
«E che sarebbe?»
«Ma i riflettori, tesorino! Vedi, la particolarità di Alticcio è di trovarsi allo sbocco di un canyon molto incassato, quasi una spaccatura, un’incisione nella montagna. A monte del canyon si trova una vallata larghissima, che si restringe progressivamente a imbuto. E così il vento che a monte s’infila nella stretta – pffffeee – ne sbuca fuori a una velocità e a una pressione senza pari: sccchhhha! I piloni delle torri non avrebbero resistito e non resisterebbero all’abrasione se i primi arrivati non avessero avuto l’idea e il fegato di installare, che dico, di crivellare l’alveo del fiume di enormi pannelli in metallo, inclinati, sui quali deviare la corrente. Mi segui, bambolina? Grazie a questi riflettori il vento orizzontale rimbalza letteralmente verso l’alto. E la città è retta, per così dire, sostenuta da un materasso d’aria ascendente che permette ai torraioli di planare placidamente nell’aria.»
Dalla scricchiolante navicella di vimini, Alticcio pareva indifferente al chiasso di quella notte. Voci salivano da alcune terrazze, lanterne illuminavano qua e là, attraverso le feritoie delle alte torri, ma per il resto udivamo solo il fruscio delle funi, il clicchettio delle banderuole e l’alito leggero del vento che scivolava sull’ovale del pallone. Erg pilotava: costeggiò la cattedrale monotorre del Fluttuante e oltrepassò lentamente un fareolo diroccato con i lunghi corni in rame che si misero a brillare al nostro passaggio, poi coprì la fiamma per iniziare la discesa. Passammo sopra la bocca di una torre termica ancora accesa e ci tuffammo piano verso la città bassa, fra le torri strette e serrate e i tetti terrazzati su più livelli. Un paio di velibici atterravano, barcarole beccheggiavano, ormeggiate a strapiombo sul baratro. Scesi sotto la barra dei quaranta metri d’altezza, il vento laterale tornò a farsi sentire: il Torvento non era lontano.
«Erg, tutto bene? La tieni?»
«Nella città bassa la portanza è discontinua, ci sono vuoti d’aria! Qualche scossone ci sta quando si passa sopra i riflettori.»
«C’è anche più densità, no?»
Interviene Talweg: «Siamo sopra il quartiere di commercianti e artigiani. Né nobile né povero. Hanno torri basse, dieci, venti, trenta metri al massimo, con terrazze che affittano ai raschiatori che hanno i mezzi per permettersele e costruirci una capanna. Alcuni affittano persino ganci per ormeggiare palloni frenati. Ci sono raschiatori che preferiscono vivere in una navicella piuttosto che nel fiume. In quota sono meno esposti al vento».
«E vedono un po’ più di sole! Ma come fanno quelli che lavorano tutto il giorno all’ombra?» si indigna Coriolis.
Sentii l’impulso di risponderle così: «Come fanno? Stanno con la testa per aria e sognano una velibici, ecco come fanno! Uno solo di loro che riesce basta a far credere a tutti gli altri che anche loro hanno una possibilità. L’ignobile sfruttamento cui sono sottoposti è possibile perché loro invidiano i loro sfruttatori. Vederli che se ne vanno a spasso lassù, a decine di metri sopra i loro nasi, non li disgusta, anzi: li fa sognare! E il peggio è che i torraioli si sono prodigati per convincerli che solo con l’impegno e il merito riusciranno a salire oltre i cinquanta metri d’altezza! E allora i raschiatori filtrano e setacciano e raschiano l’alveo del fiume fin quando non sentono di meritare… Ma, quando ciò accade, capiscono che i loro sforzi non sono giudicati e valutati da nessuno, in nessun luogo, perché nessun compratore sa riconoscere il valore di quel che fanno. Che non esiste alcun giudice supremo del merito, solo i mercanti che da loro acquistano una materia prima che ottanta metri più su rivendono al doppio. Qui li chiamano ‘arrampicascale’. Ed è solo allora che il raschiatore si arrabbia, si sente pervaso dalla rabbia. Ma si sa che la rabbia, quando non può esplodere o trasformare la propria causa, finisce per implodere! Si rivolta e torna al mittente sotto forma di rancore, s’inietta nelle vene di chi la prova sotto forma di odio per sé e per gli altri, in mesto cinismo, si distilla in meschinità colme di livore, si riversa a ondate su chi sta intorno: la moglie, gli amici, i figli…»
«In effetti, nei raschiatori si distinguono due tendenze: ci sono coloro che hanno fatto della propria rabbia, come dici tu, una lotta contro i torraioli, persone che scelgono di militare nell’Hansa, che cercano di cambiare la città, di affrontare coloro che le disprezzano tanto. Poi però ci sono quelli che hanno permesso alla rabbia di divorarli dentro, che non hanno saputo, o voluto, trasformarla in qualcosa di attivo, lasciare che si sfogasse nella realtà», osserva Steppa.