Presentazioni web

Da qualche anno, se devo fare delle slides, uso reveal.js, un programma open source veramente bello e potente: personalmente, lo sfrutto ogni volta che posso, e cerco di impararlo meglio ogni volta che faccio una presentazione. Le sue funzionalità sono tantissime, ed è impossibile essere esperti in una volta sola.

Se nella vita avete fatto almeno 5-6 presentazioni, sapete che è un argomento infinito, con le sue correnti di pensiero e i suoi guru. C’è chi ama Guy Kawasaki, chi prega su presentationzen, chi adora lo stile nerd ma unico di Lawrence Lessig.
Lo stile di presentazione dovrebbe essere indipendente dallo strumento (PowerPoint, Keynote, Google presentation, Impress ecc.). Ma la tecnologia è strumento, lo strumento è potenza e la potenza è definire uno spazio di possibilità. È uno degli assiomi del design, le affordance di Don Norman.
reveal.js è basato sul principio che le tecnologie del web (HTML, css, javascript) sono abbastanza potenti per scrivere presentazioni. Questo, nella pratica, significa scrivere una presentazione come se fosse una pagina web, cioè codice. E le parole sono codice, il codice è fatto di parole.
E fin qui la teoria. Nella pratica, reveal.js mi permette di scrivere le mie slides in un unico documento, come questo.
Il codice usato è Markdown, cioè un HTML molto semplificato (lo uso anche qui su WordPress).
L’avere un unico documento è utilissimo perchè puoi strutturare il discorso in un unico luogo, strutturandolo in  capitoli che sfruttino la possibilità di reveal.js si avere slides orizzontali o verticali: ogni capitolo prosegue in verticale, mentre per passare da un capitolo all’altro vado in orizzontale.
Non permette quindi un nesting maggiore  (cioè, avere sottocapitoli, sottosottocapitoli, ecc.), ma è abbastanza per aumentare in complessità ed aiutare nella struttura.
Un’altra cosa interessante è che essendo puro testo/codice puoi sfruttare GitHub: io uso GitHub Pages per avere tutto online (ho un accrocchio molto complicato fatto dal buon Cristian Consonni, io non saprei mai ricrearlo).
Di fatto, dunque, ho slides:
  • collaborative: su GitHub si può scrivere codice a più mani
  • sempre online: le persone volendo ci possono tornare e cliccare i link e vedere i dettagli
  • con codice e iframe: per esempio, guardate qui (fate refresh, c’è una query a Wikidata)
  • con tutte le funzionalità grafiche che css e javascript possono offrire, senza contare l’HTML: ipertesto, link, ecc.
Insomma, di fatto è usare il web al massimo della potenza per convogliare un messaggio alle persone, mentre si parla.
Trovare tutte le mie slides qui.

Internet è un moltiplicatore

Da tempo, penso che il modo migliore per descrivere internet sia dire che è un moltiplicatore. Nessuno sa cosa sia, un moltiplicatore, perchè è una cosa che non esiste: ma questo va a vantaggio della metafora. Tutti immaginiamo cosa faccia, una scatola nera che moltiplica cose. Ci metti dentro qualcosa, e questa ti esce più grande, più grossa in più copie. Ci metti dentro qualcosa di bello, ed esce magnifico. Ci metti qualcosa di brutto, e diventerà orribile. Garbage in, garbage out.

Una cosa che mi disse Eco, quando lo intervistai 6 anni fa, fu che Internet (al contrario della televisione) allargava la forbice fra ricchi e poveri:

Il computer in generale, e Internet, fa bene ai ricchi e fa male ai poveri. Cioè, a me Wikipedia fa bene, perché trovo le informazioni che mi sono necessarie, ma siccome non mi fido, perché si sa benissimo che, come cresce Wikipedia, crescono anche gli errori. Io ho trovato su di me delle follie inesistenti, e se qualcuno non me le segnalava, avrebbero continuato a restare lì.

I ricchi sono coltivati, sanno confrontare le notizie. Io vado a vedere la Wikipedia in italiano, non sono sicuro che la notizia sia giusta, poi vado a controllare quella in inglese, poi un’altra fonte, e se tutte e tre mi dicono che quel signore è morto nel 371 d.C. comincio a crederci.

Il povero invece becca la prima notizia che gli arriva, e buonasera. Quindi c’è per Wikipedia, come per tutto Internet, il problema del filtraggio della notizia. Siccome conserva tutto, sia le notizie false che le notizie vere, mentre i ricchi hanno delle tecniche di filtraggio almeno per i settori che sanno controllare.

È un discorso attualissimo, a cui si fa continuamente riferimento: le bufale, i complotti, la camera dell’eco dei social. Facebook da tempo sta cercando di eliminare le bufale algoritmicamente, con scarso successo. Chi controlla le notizie? Chi andrà a convincere le persone che hanno letto e si sono convinte di una notizia falsa? Le ricerche ci dicono che fare il debunking dei complotti è inutile, perchè nessun complottista ne sarà mai convinto.

Uno dei risultati della rivoluzione digitale è dunque aver allargato la forbice cognitiva: chi aveva gli strumenti per capire (e l’attitudine a farlo), trova in internet un moltiplicatore. E chi invece questi strumenti o questa attitudine non ce l’aveva, trova lo stesso effetto moltiplicatore.

Avete notato come, soprattutto su Internet, la gente non ragioni, ma reagisca?

Non è un caso: se siamo abituati ad agire istintivamente, a non filtrare l’emozione, Internet diventa uno specchio del nostro cuore e del nostro intestino, più che la biblioteca digitale universale che i suoi creatori volevano costruire. I social sono uno specchio della società, in cui viene esplicitato prima un sentimento che un pensiero. In un luogo del genere, la nonviolenza gandhiana di Gianni Morandi appare (e in parte lo è) un atto eroico: perchè risponde ad aggressione con sorriso, a violenza con ironia, sovvertendo la logica della forza che tendiamo a vedere ovunque. Siamo abituati che ad azione corrisponda reazione uguale e contraria, e chi non lo fa diventa un fenomeno del web: Gianni Morandi l’antinewtoniano.

Il nostro è un mondo sempre più complesso, o quantomeno in cui la complessità è percepita in maniera sempre più vivida, è sempre più reale. E le persone ne sono, letteralmente, sommerse.

Qualche anno fa si parlava di “overdose informativa” (information glut), ma è forse più propriamente una “overdose di complessità”: la realtà  (la cara, vecchia realtà che ho sempre conosciuto) ti sfugge da sotto i piedi, e ti senti attaccato nella tua identità (nazionale, sessuale, di genere, economica, alimentare).

E quando ti senti attaccato ci sono solo due possibilità: combatti o scappa

Ovviamente, c’è chi è molto bravo a sfruttare politicamente tutto questo: Trump, per esempio, offre una rassicurante opzione  “combattiva” (utilizzando la sempiterna massima cristiana “vai bene così sei“). Tutta la sua retorica (e il suo registro linguistico da bambino dislessico) non fa altro che dirti: quello che senti è giusto, hai paura, io so vincere, risolverò tutto questo. E il mio terrore è che noi “ricchi” (che sappiamo leggere le notizie in un paio di lingue, che sappiamo annusare una bufala leggendo solo il titolo) non sappiamo capire tutto questo. Non è, credo solo un discorso politico, ma un discorso cognitivo.

 


 

Denise scrive questo bel post, a cui risponde Eusebia. Si parla di biblioteca come istituzione, istituzione che dovrebbe rispondere a certe domande della società. Istituzione che storicamente aveva un senso e uno scopo che continua a mantenere, senza, spesso, rendersi conto che è la società ad essere cambiata, ed oggi rispondere ai bisogni informativi vuol dire una miriade di cose differenti.

Per cui basta entrare in una biblioteca oggi per rendersi conto che la gente lì ci sta per studiare (sui propri libri), usare il wifi gratuito (se c’è), usare il computer per guardare un dvd o andare su internet (tendenzialmente, lo fa chi non possiede un pc a casa). Perchè la biblioteca è l’unico luogo che non gli chiede niente, in cui possono stare al caldo d’inverno e al fresco d’estate.

La biblioteca è sempre meno un luogo per “rispondere ai bisogni informativi”.  L’idea di prendere un prestito un libro, o anche solo di pensare che un libro possa aiutarmi a rispondere ad una domanda per me importante, è sempre più minoritaria. Ma anche, come dice Virginia, a volte un libro è esattamente ciò di cui ho bisogno (per esempio, un manuale per prendere la patente).

Se qualche decennio fa (ma quanti?) bastava essere gli unici depositari di informazione scritta per poter servire i cittadini, ora Internet questo lavoro lo fa al tempo stesso meglio e peggio, ma certamente in maniera molto più comoda e veloce e personalizzata. E chi fa le cose più come e più veloci e più personalizzate, semplicemente, vince, spesso a discapito della qualità.

Per cui si torna al discorso di prima: internet ti offre tutto quello che gli chiedi, moltiplica chi sei.

La domanda, dunque, sorge spontanea: la biblioteca può essere risposta parziale a tutto questo? Può esistere la biblioteca come facilitazione alla complessità? Lavorare come adesso ma cento volte di più, su alfabetizzazione/literacy/strumenti?

Potrebbe essere un obiettivo nobilissimo e praticissimo al tempo stesso. Il punto, forse, è che le biblioteche (luogo gratuito e aperto, a tutte le età e condizioni sociali) possono essere il posto giusto, ma certamente i bibliotecari non bastano: ci vorrebbe un coordinamento fra ruoli e competenze diverse, dagli insegnanti agli assistenti sociali a, ovviamente, i bibliotecari.

 

 

Biblioteche e open data

Riflessioni di Virginia su #MLOD16.

bibliotecari non bibliofili!

Lunedì scorso sono stata al seminario che si è tenuto presso la Biblioteca Sormani di Milano Open Data, Machine Learning e Biblioteche. Ora sono stati pubblicati i video integrali degli interventi, compresa la tavola rotonda del pomeriggio. Questo era il programma della giornata.

Si è trattato di un seminario anche più interessante di quanto già non mi aspettassi. Fra tutte le cose che ho sentito – o meglio fra quelle che ho capito ma, come cercherò di spiegare, non è molto importante che alcune non si capissero – ce n’è stata una sola con cui non sono d’accordo: che gli open data delle biblioteche, e quanto ci si può costruire, siano un oggetto di interesse di nicchia.

Perché no? Perché, quando di certo non si sta parlando di sostenibilità economica dei servizi, di promozione della lettura, di open access o di qualunque altro modo in cui…

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#MLOD16. Open Data, Machine Learning e Biblioteche alla Sormani di Milano

Questo lunedì noi di MLOL eravamo a Milano a parlare di dati, biblioteche e machine learning. Qui ci sono tutti i video e tutte le slides. Consiglio soprattutto quello di Marco Goldin e Giulio Blasi.

MLOL Blog

Lunedì 7 novembre presso la Biblioteca Sormani di Milano si è svolto il seminario “Open Data, Machine Learning e Biblioteche”, organizzato da noi di MLOL in collaborazione con Mediatech Group. Una giornata importante e partecipata: ci azzarderemmo a definirla una “prima volta” per le biblioteche italiane su questo tema, per livello di approfondimento, partecipazione e prospettive di sviluppo futuro. E speriamo di aver contribuito, con questo convegno, a una prima definizione degli obiettivi e delle opportunità per aprire un nuovo campo di analisi e di sviluppi operativi per le biblioteche in Italia.

Teorema di Bayes

Per chi non avesse potuto partecipare alla giornata (che abbiamo raccontato su Twitter con l’hashtag #MLOD16), riportiamo qui di seguito tutti i video degli interventi dei relatori, con relative presentazioni.

Giulio Blasi. Da Babele a Bayes: manifesto per una terza fase di digitalizzazione delle biblioteche

Leggi la presentazione di Giulio Blasi

Gabriele Nuttini. Machine Learning e Sistemi…

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La forma della Biblioteca di Babele

L’universo (che altri chiama la Biblioteca) si compone d’un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo, bordati di basse ringhiere. Da qualsiasi esagono si vedono i piani superiori e inferiori, interminabilmente. La distribuzione degli oggetti nelle gallerie è invariabile. Venticinque vasti scaffali, in ragione di cinque per lato, coprono tutti i lati meno uno; la loro altezza, che è quella stessa di ciascun piano, non supera di molto quella d’una biblioteca normale. Il lato libero dà su un angusto corridoio che porta a un’altra galleria, identica alla prima e a tutte. A destra e a sinistra del corridoio vi sono due gabinetti minuscoli. Uno permette di dormire in piedi; l’altro di soddisfare le necessità fecali. Di qui passa la scala spirale, che s’inabissa e s’innalza nel remoto. Nel corridoio è uno specchio, che fedelmente duplica le apparenze.

In quello che è senza dubbio «il più bell’incipit della storia della Letteratura», Borges pone le basi di una questio accademica che, negli anni coinvolgerà critici, letterati, architetti, matematici, e, ovviamente, bibliotecari. Il problema, cioè, della forma della biblioteca di Babele.

Un luogo è un linguaggio, diceva Manganelli nella prefazione a Flatlandia.
Ogni linguaggio prefigura e necessita un luogo di concetti, un sistema di relazioni fra concetti e parole. Ogni linguaggio costruisce un luogo mentale, ogni luogo concettuale pretende un suo linguaggio. L’entomologo dovrà inventarsi parole per descrivere «l’impalpabile sfumatura di azzurro di un’ala di farfalla», come disse Cristina Campo. Nelle nostre televisioni, il linguaggio forbito ed esagerato del sommelier è l’esempio più comune: esigenze di spettacolo a parte, come si fa a descrivere a parole la tenue ma cruciale differenza organolettica fra champagne di diverse annate? Le parole devono ricostruire una propria scala e una propria proporzione. Quando il linguaggio diventa gergo, ecco che possiamo definirne i limiti spaziali e sociali, di comunità che lo abita.

Borges (che fu, prima che un grande scrittore, un formidabile lettore), affronta così il dilemma del conte Ugolino (Note dantesche, III):

Robert Luis Stevenson (Ethical Studies, 110) osserva che i personaggi di un libro sono filze di parole; a questo, per quanto blasfemo possa sembrarci, si riducono Achille e Peer Gynt, Robinson Crusoe e don Chisciotte. A questo anche i potenti che ressero la terra: una serie di parole è Alessandro e un’altra Attila. Di Ugolino dobbiamo dire che è una trama verbale, che consiste di una trentina di terzine. Dobbiamo includere in quella trama l’idea di cannibalismo? Dobbiamo sospettarla, ripeto, con incertezza e timore. Negare o affermare il mostruoso delitto di Ugolino è meno tremendo che intravederlo. L’asserzione «un libro è le parole che lo compongono » rischia di sembrare un assioma banale. Eppure, siamo tutti propensi a credere che vi sia una forma separabile dal contenuto e che dieci minuti di dialogo con Henry James ci rivelerebbero il «vero » tema del Giro di vite. Penso che non sia così; penso che di Ugolino Dante non abbia mai saputo molto più di quanto non dicano le sue terzine.

Thomas Eliot (in quelle lezioni americane¹ rese famose da Calvino e affrontate, fatalmente, anche dallo stesso Borges) ricorda, con Leopardi, che caratteristica dei grandi capolavori è essere vaghi, incompiuti, incompleti; è dalle fratture della contraddizione che emerge il genio, evocata in quello che non è strettamente dentro le parole. Il tutto è maggiore della somma delle parti, soprattutto se le parti non si incastrano perfettamente.

Borges, dunque, nonostante scrivesse decenni dopo Eliot, ci obbliga a leggere in questo senso le parole di Eliot: d’altronde, “ogni scrittore crea i propri precursori(Altre inquisizioni).

Riprende infatti Borges, sempre in Note Dantesche:

Nel tempo reale, nella storia, ogni volta che un uomo si trova di fronte a varie alternative opta per una ed elimina o perde le altre; non è così nell’ambiguo tempo dell’arte, che somiglia a quello della speranza e dell’oblio. Amleto in quel tempo, è assennato ed è pazzo. Nella tenebra della sua Torre della Fame, Ugolino divora e non divora gli amati cadaveri, e questa ondulante imprecisione, questa incertezza, è la strana materia di cui è fatto. Così, con due possibili agonie, lo sognò Dante, e così lo sogneranno le future generazioni.


Un luogo è un linguaggio; ergo, un luogo immaginario è linguaggio al quadrato. (L’allitterazione delle bilabiali, nella borgesiana biblioteca di Babele, suggerisce foneticamente questa moltiplicazione).

Nel racconto, la pietra di scandalo fu questa frase:

Venticinque vasti scaffali, in ragione di cinque per lato, coprono tutti i lati meno uno; la loro altezza, che è quella stessa di ciascun piano, non supera di molto quella d’una biblioteca normale.

Non ci vuole molto per rendersi conto che un solo lato aperto dell’esagono conduce necessariamente ad una biblioteca di gallerie verticali incomunicanti, se non a due a due.

È questa la versione da sempre conosciuta dal lettore italiano, come tradotta (magistralmente) da Franco Fortini.
Borges stesso si accorse dell’errore, emendando frettolosamente il racconto nella versione del ’56 (la versione originale è del ’41) e aumentando le uscite dell’esagono da una a due.
Necessariamente, anche quella versione si rivelò incompleta, o incoerente (il che, nell’economia della biblioteca, es lo mismo).

Non ci si stupirà certo che questo fattaccio letterario abbia generato, negli anni, un felicissimo filone critico, cioè uno studio della biblioteca di Babele dal punto di vista architettonico.
Vari articoli (dello stesso Fortini, di Umberto Eco, di matematici e architetti) e persino qualche monografia sono andati via via accrescendo questa particolarissima e pedante bibliografia.
Il più illustre di questi tentativi è certamente “The Unimaginable Mathematics of Borges Library of Babel”, del matematico inglese William Bloch, pubblicato nel 2008 per i tipi della Cambridge University Press.
Bloch (che vide in Umberto Eco il suo lettore tipo²) studiò solo la seconda versione (quella con due uscite) arrivando a proporre una biblioteca « illimitata e periodica» come superficie tridimensionale di una sfera a quattro dimensioni.

Recentemente, lo scrittore Jonathan Basile ha imparato a programmare soltanto per costruire un sito dedicato all’inesauribile biblioteca: nel sito libraryofbabel.info si possono compulsare alcune pagine dei volumi della biblioteca immaginaria, che, come da probabilità, sono un’immensa cacofonia di lettere e punteggiatura.

Ancora, jwz affronta l’architettura impossibile, con una recente analisi di tentativi passati e alcune sue personali ipotesi.

Ma è giusto essere orgogliosi anche degli italici sforzi a riguardo.
È del 2015 la pubblicazione, per Medusa, di “Come costruire la biblioteca di Babele”, di Renato Giovannoli, filosofo e bibliotecario.

Giovannoli ripercorre una a una le soluzioni proposte fino ad oggi, evidenziandone le fallacie e le incoerenze rispetto al racconto di Borges, la cui logica interna deve essere rispettata il più possibile (non a caso, Giovannoli propone 4 assiomi, derivandoli dal racconto, da cui non si può prescindere).
La sua bibliografia (che per un mero accidente temporale ignora il progetto web di Basile e il blogpost di jwz) è al momento la più completa sull’annoso problema.

La soluzione finale (proposta da Giovannoli padre con l’aiuto del Giovannoli figlio, architetto) è elegante e soddisfacente. Tale soluzione qui non vi verrà svelata.


  1. In realtà, ho cercato e non ancora trovato il testo in questione di Eliot, nonostante sia certo di aver letto il paragrafo su Amleto proprio lì. Forse non sono le Charles Norton Lectures, forse è un saggio spurio. Non importa.
  2. Eco, che intervistai per caso nel 2010, non conosceva il libro, e gliene parlai. Per una volta, so di essere stato strumento dello Spirito nell’incontro fra un libro e il suo lettore predestinato.