Una delle mille invenzioni incredibili del Dune di Frank Herbert è sicuramente il “jihad butleriano“: la rivolta contro l’intelligenza artificiale, accaduta in un passato remoto rispetto a tutti gli eventi del libro (e del film). È il motivo per cui non ci sono computer, in Dune, ma ci sono i “mentat“, i calcolatori umani, mezzi mistici mezzi fogli excel.
Usare questa idea in un romanzo di fantascienza, nel 1965, è ovviamente geniale, ma non nasce nel vuoto: l’aggettivo “butleriano” è un omaggio a Samuel Butler, autore nel 1872 del romanzo Erewhon.
Erewhon è un’utopia distopica, un romanzo satirico di un “militante eterodosso” e ironico iconoclasta che lanciò i suoi strali contro ogni cosa, tradusse l’Iliade e l’Odissea, scrisse un romanzo autobiografico dal titolo perfetto, Così muore la carne.
Contemporaneo di Darwin, Butler fu prima affascinato dalla teoria dell’evoluzione per poi esserne – a ragione – terrorizzato. L’evoluzione darwiniana era una forza acefala, caotica, né senso. Senza mente creatrice.
Nel paese di Erewhon (“Nowhere” al contrario), le macchine sono state tutte distrutte, perché un pensatore di genio aveva intuito che ogni macchina porta in sé il germe di una macchina più potente. Di evoluzione in evoluzione, le macchine un giorno avrebbero comandato l’uomo, e per questo furono distrutte.
Per uno di quei casi divertenti, nel 1965, lo stesso anno di Dune, esce “Erewhon” per Adelphi, fra i primissimi libri pubblicati dalla casa editrice, nei Classici disegnati da Enzo Mari.
Non è sconsiderato ipotizzare che Erewhon fosse una lettura di Bobi Bazlen, e che lui avesse amato la immaginazione swiftiana dell’autore, ma avesse anche ritrovato in quei capitoli folgoranti in cui si descrivono le ragioni della rivolta contro le macchine – intitolati “Il libro delle macchine” – una vera “primavoltità”, come amava dire. La prima volta che un’idea veniva espressa in un libro.
L’idea che la tecnologia stessa custodisce dentro di sè il germe della propria evoluzione – e quindi, necessariamente, di un progresso che la porterà a superare i limiti umani, a diventare coscienza, vera “intelligenza artificiale” – diverrà poi un tema fondamentale del XX e del XXI secolo.
In maniera ovviamente diversa, io ne lessi da Kevin Kelly, Ray Kurzweil e Ted Kaczynski, matematico geniale “best known for other works”, con lo pseudonimo Unabomber.
In due libri il cui titolo è tutto un programma (Quello che vuole la tecnologia e L’inevitabile) Kelly tratta la tecnologia come se possedesse una propria forza, come se fosse figlia e connaturata all’essere umano come l’arte e la musica. “Technium“, la chiamava. Bombe a parte, Kelly affronta seriamente i testi di Kaczynski, autore che definire controverso è un eufemismo ma che sicuramente ha argomenti a volte incontrovertibili.
Sono certo – ma da ore cerco senza successo – di aver letto di Erewhon (e del suo seguito, Ritorno a Erewhon) da Roberto Calasso. Certamente Calasso ne scrisse il risvolto, dato che è la prima delle Cento lettere a uno sconosciuto, raccolta appunto di risvolti scrissi dall’autore-editore.
Chissà, forse i miei ricordi sono alterati e galeotto fu la sola quarta, con la frase sublimamente calassiana:
«Ma quel che forse colpirà di più il lettore d’oggi sarà la chiaroveggenza di Butler sul futuro di una civiltà tecnologica che è già diventato, per noi, presente».
Funny enough, Calasso sparla di Kelly ne L’impronta dell’editore, mentre ne L’innominabile attuale ce l’ha con Kurzweil.
Non è dato sapere cosa ne pensasse di Kaczynski.