I primi giorni qui a Tallinn abbiamo fatto un gioco, di quelli organizzati per gli studenti Erasmus, interculturalità, globalizzazione, siamo tutti fratelli, cose così.
Ci si chiedeva di elencare alcuni stereotipi culturali dei nostri compagni, di comunicare solo a gesti come disegnare tre semplici oggetti, finchè si è giunti ad alcune domande.
Fra le varie, mi ha colpito quando ci hanno chiesto se la nostra cultura è di quelle long-term, che pensa sempre al futuro, che vede in un duro studio oggi la carriera di domani, che prepara nel presente la stabilità del futuro.
Una mia compagna thailandese ha tranquillamente risposto di si, che i voti a scuola sono importanti, che la società inizia a selezionare da subito, e l’impegno è necessario da subito, che si costruisce giorno per giorno.
Io ho sorriso scorgendo nella sua candida sicurezza il nostro contrario. Mi sono accorto di quanto noi siamo attaccati al presente, di quanto viviamo alla giornata, di come sempre cerchiamo di gustare il subito: l’amore per il cibo, per i vini, per la tavola tutti insieme, per gli aperitivi, i caffè con gli amici, tutta la proverbiale e spesso patetica figura dell’itagliano pizza, pasta, mandolino (mamma e mafia) viene, anche, da questo voler stare nell’adesso, nel non preoccuparsi del domani.
Tutto bello e buono, spesso, finchè però non assaggi il lato amaro. Non preoccuparsi troppo del domani è corretto, non preoccuparsene affatto significa non prevedere, non prevenire, non costruire. Siamo sempre in balia del presente, funzionando con la pancia: ci voltiamo come un solo uomo all’emergenza (cani, stupri, rumeni, immigrati, terremoto che sia), ce ne dimentichiamo alla prossima. Senza memoria, senza raziocinio. Tutti eroi per poche settimane (per carità, alcuni eroi davvero), però senza imparare.
Se la terra si apre e ti mangia una città, e lo fa da sempre, da quando è nato il mondo, puoi solo guardarla e avere paura di lei, ricordarti della paura, cercare di far sì che la prossima volta che aprirà le fauci non ti trovi impreparato. Perchè la tragedia serve solo se si impara, altrimenti si è punto e a capo.
Siamo un popolo più generoso e solidale di altri, ed è buono e giusto, ma dovremmo imparare un po’ della freddezza e del raziocinio che non ci appartengono. Calcolare, prevedere, prevenire, sbagliare, ricalcolare, ricostruire. Altrimenti non serve a niente, e finiamo soltanto per creare gli eroi quando la tragedia, inevitabilmente, arriva.
‘Sta solfa degli eroi al solo-al-momento-giusto dovremmo convertirla in azioni eroiche quotidiane, tipo costruire case con le migliori norme antisismiche (al meglio che possiamo), protezione civile allertata prima (cosa più fattibile ma più costosa per tutti i falsi allarmi), popolazione aducata alle emergenze, fondi alla ricerca. Ma non lo faremo mai, figurati, non siamo mica giapponesi.