Esco dalla pizzeria, sono a piedi, le pizze calde in mano. Mentre sto per attraversare la strada, si avvicina un ragazzo: nero, cappello e cappuccio, un trolley a fianco. Mi chiede, in inglese, con difficoltà, se passerà presto un autobus per Modena. Lo guardo, stupito, guardo il mio orologio, sono quasi le nove e mezza. Siamo a Sorbara, a venti minuti di macchina da Modena; attorno a noi c’è buio pesto, freddo, e una gran nebbia. Siamo nella bassa modenese, domani è san Geminiano. Quale miglior notte per un nebbione da lupi.
Non passa più niente, gli dico.
Il ragazzo si gira nervosamente, balbetta qualcosa, e poi, piano ma senza riuscire a fermarsi, inizia a piangere. È tutto buio, si vedono solo i suoi occhi bianchissimi, i riflessi sulle lacrime. Ho due pizze in mano che si freddano, provo, senza un enorme successo, a farmi spiegare perché è lì, cosa vuol fare. Mi racconta che era venuto qui perché un suo amico gli aveva promesso di tenergli la valigia, lui è appena arrivato dalla Svezia, sono pochi giorni che è a Modena, non conosce nessuno se non questo qui. Lui ha preso un autobus verso la bassa, si è fermato, ha cercato tutto il giorno il suo amico, che non c’era. Ha un cellulare, ma non ha la SIM italiana. Non ha nessun numero di telefono. Chissà se si è fermato nella città giusta, chissà se non doveva andare più giù, o scendere prima. Il Canaletto è tutto uguale per uno che non lo conosce.
Decido, rassegnato, di sabotare la mia serata con A., dico al ragazzo di stare fermo lì, che lo riporto io a Modena. Corro velocemente a casa, c’è talmente nebbia che non riconosco l’entrata (è la casa dei genitori di A., siamo venuti qui nel weekend a tenere gli animali, sono otto, 7 gatti e un cane). Do ad A. la sua pizza ormai fredda, mangio la mia a metà, in piedi, il resto lo porterò in macchina per lui. Ogni identità deve scegliere fra un equilibrio fra apertura e conservazione: le culture, le cellule, le persone. Io e A. abbiamo una sorta di patto segreto per cui cerchiamo di non portare troppa sofferenza del mondo in casa nostra, perché entrambi sappiamo che non possiamo esagerare, che se apriamo troppo veniamo risucchiati. Stasera sto rompendo quel patto. So che fare il buon samaritano vuol dire rovinare la serata anche a lei. Prendo le chiavi ed esco.
Il ragazzo è seduto, accosto la macchina, gli dico di salire. Fa casino con le portiere, non sa dove entrare, dove mettere la valigia, si vede che è confuso. Lo aiuto, si siede, gli dico di mangiare la mia mezza pizza rimasta, oramai gelida. Se lo fa dire due tre volte, ma poi mangia. Gli chiedo se è buona, se gli piace, mi volto per un secondo e lo vedo sorridere per un attimo. Il primo sorriso della serata, credo uno di due.
Mentre penetriamo nella nebbia, come Attila mille anni fa, cerco di farmi spiegare nuovamente. Ibrahim (suona così, ma è scritto diverso) viene dal Gambia, ha vent’anni, è stato a Modena (non so quando) e ha lavorato in un progetto. Conosco il nome della cooperativa, ora ci lavora anche mia sorella. Ma i progetti finiscono: appena ha ricevuto il suo permesso di soggiorno è andato in Svezia, ma anche lì il progetto è finito (non so quanto sia durato). In Svezia se dici che vuoi tornare indietro ti pagano il biglietto dell’aereo, lui decide di tornare a Modena. Mi accenna alla Libia, credo sia venuto da lì, ma non so se è una di quelle balle che si passano tra di loro, perché chi è rifugiato ha un trattamento diverso, migliore. Non indago.
Capisco ora che è tornato solo da due giorni, che è già stato al Centro stranieri, che gli hanno detto che il suo progetto è finito, che non possono farci niente. Lui ha ritrovato un suo amico di quando era a Modena, lui è ancora dentro al progetto perché non ha ancora i documenti; gli chiede se può stare con lui, dice che non si può, ma che gli tiene la valigia. Ibrahim non ha un posto dove stare, e si deve sempre trascinare il trolley dietro. La prima notte ha dormito in stazione.
Capisco che le cose si fanno subito incasinate: è già stato al Centro stranieri, l’hanno già rimbalzato, tutto il primo giorno. Lo porto a Porta Aperta, centro della Caritas, hanno un dormitorio e offrono pasti, ma sono disilluso.
Perché io queste cose un po’ le conosco: quattro, cinque anni fa facevo parte di una parrocchia che aveva aperto un dormitorio nelle sale dell’oratorio, un paio di letti. Cercavamo di prendere persone con cui fare un progetto vero, oltre il solito discorso del pasto + letto, che è importante ma ahimè non risolve nulla, è solo la base su cui costruire. Ho una vaga idea del confuso mondo della Caritas, di come funziona, dei legami con i servizi sociali. Ma il mio cinismo ha l’inquietante caratteristica di prenderci più volte che no: mi rendo conto che da cinque anni a questa parte le cose non sono cambiate, che l’infrastruttura dei servizi è a dir poco insufficiente. Come gestire un ospedale con cerotti e soluzione fisiologica.
A Porta Aperta, difatti, mi dicono quello che immagino: che non funziona così, che non posso portarlo e loro lo prendono, che bisogna passare per il Centro Stranieri per entrare nella struttura, che c’è la lista d’attesa. Il ragazzo che mi parla è gentile e capisce, ma non può farlo entrare. Lui non è che uno dei tanti.
Intanto ho sentito i miei genitori, che si sono attivati, hanno provato a telefonare un altro prete (di fatto, un francescano che faceva accoglienza proprio nei locali di fianco a Porta Aperta: fu mandato via, per traffici e accordi non troppo chiari, perché i Francescani affittarono quei locali alla Misericordia di Giacomardi ― si, il gemello ―, volevano farci un ristorante o non so che cosa. Il ristorante nel frattempo è fallito.). Un niente di fatto, anche lui ha tutti i posti occupati.
Torniamo via da Porta Aperta con qualche volantino in più, la consapevolezza che lì almeno i pasti sono gratis, tutti i giorni, mezzogiorno e sera. Lunedì Ibrahim proverà a tentare di mettersi in lista per un posto letto.
Tentiamo l’ultima carta, da P., il prete della mia vecchia parrocchia. Sono anni che non ci vediamo, da quando non sono più credente (si dice così?): ci accoglie dentro, ma subito mi dice che il progetto del dormitorio non è più ripartito, che si era pensato a fare, in questi anni, un mega progetto, con la Caritas, di “asilo diffuso”, con le famiglie che aiutavano, accogliendone uno ciascuno. Non è mai partito. Come al solito, dopo tante parole, li hanno lasciati soli nei loro “esperimenti”. Di fatto la parrocchia adesso gestisce una famiglia di profughi, sono riusciti a metterli in un appartamento loro, li seguono. Però per Ibrahim non c’è posto, non hanno neanche più i letti per dormire. P. mi dice che proverà a chiamare il capo di Porta Aperta, proviamo almeno a farlo entrare nella lista. Guardiamo i suoi documenti: il permesso di soggiorno dice 1996, ha vent’anni davvero. Ho un fratello del ‘94, una sorella del ‘98, lui è esattamente in mezzo. Per il teorema dei due carabinieri, ai miei occhi, è un bambino. La logistica diventa subito complicata: lui non ha ancora una SIM, forse domani riesce a farla, forse lunedì. Ci scambiamo numeri e contatti e poi vedremo. Inshallah, direbbe qualcuno.
Alla fine, Ibrahim, per stanotte e solo stanotte, andrà a casa dei miei genitori. Vivono in una comunità familiare, c’è una foresteria, per stanotte può andare bene. Non oltre stanotte: senza progetto, neanche lì va bene, la situazione è complicata. Ma io mi accontento, spero anche Ibrahim, che un po’ pare sollevato: mio padre gli spiega tutto, domattina sarà di nuovo a Modena, lunedì deve riuscire ad andare a Porta Aperta, tentare di ottenere un posto letto. Mio padre si rende conto che lui è giù, tenta di risollevarlo con una carezza, vedo il secondo e ultimo sorriso della serata.
Prima di entrare nella stanza, si toglie le scarpe, anche se nessuno se le è tolte. Scopriamo così che è mussulmano. Chissà, magari è un terrorista.
Gli dò venti euro, per la SIM. Lo saluto, gli do la mano. Non ho davvero idea se ci rivedremo, ma credo di si, Modena è piccola, lui non andrà da nessuna parte. Probabilmente dormirà in stazione da domani in poi. Stasera no. Chissà se ne è valsa la pena. Era una domanda che ci ponevamo spesso, le estati in Romania, con i ragazzi e i matti del manicomio: ha senso dare amicizia e cerotti due settimane all’anno? Non è peggio creare aspettative? Non c’è risposta, neanche stasera.
Torno a casa con pensieri confusi, con una nebbia che da tempo non vedevo così fitta e impenetrabile, con una disillusione che fa quasi male e che però, maledettamente, sbaglia raramente. Penso a quanti danni al mondo abbia arrecato una singola scopata di mamma Giacomardi. Penso che oggi era il giorno dei Family Day, la giusta battaglia per chi crede in un Dio misericordioso.
Mi addormento, benedicendo il letto.
Pubblicato il 1 febbraio 2016 su Medium.