Nello splendido capitolo finale de “L’anello di Re Salomone”, intitolato “Canicola”, Konrad Lorenz confessava di come gran parte del suo successo scientifico e accademico derivasse, curiosamente, dalla pigrizia. Possedeva, a suo dire, il “dono inestimabile di poter completamente arrestare i processi mentali superiori, mantenendosi in uno stato di perfetto benessere”. Così d’estate amava fare passeggiate con il proprio cane, farsi una nuotata in un ramo secondario del Danubio, e poi stendersi sulla riva, sotto la canicola, come un “coccodrillo al sole”. Solo così riusciva ad osservare gli animali nel loro ambiente naturale: per lunghissime ore, senza far null’altro. “Animale fra animali”, si sentiva in pace, accettato da tutti. È facile immaginarselo così, costume e pancia all’aria, per mattine e pomeriggi interi, a sonnecchiare, osservare intorno a sé. Semplicemente essere, stare. In un “nirvana animalesco”, scriveva, in un “paradiso preumano”.
Ho letto queste pagine tanti anni fa, ma mi sono sempre rimaste dentro: c’è qualcosa, soprattutto in quell’aggettivo – preumano – che non mi ha mai lasciato. Era un suggerimento, un appiglio: un’intuizione dell’esistenza di dimensioni sconosciute, quasi inaccessibili. Quasi.
Un anno esatto fa è nata Matilde, la nostra secondogenita. Nome scelto per ragioni canossiane per sua madre, dahliane per me: la mia prima eroina, il mio primo libro preferito.
Al contrario di Tommaso, è stato un parto veloce e senza complicazioni, che è il meglio che può capitare, e ha introdotto settimane praticamente perfette, fatate. Ora quasi dimenticate, ma so che sono accadute.
Ci siamo rifugiati nel nido del reparto ostetrico prima e di casa poi. E Matilde è stata perfetta, titto nanna cacca, come da manuale, in serena ciclicità. È una fase meravigliosamente vegetale: quando non si dorme si mangia, quando non si mangia si dorme.
Tommaso, il nostro primogenito, la guardava e scopriva per la prima volta la propria dolcezza, imparando una delicatezza da bimbo grande, un cuore da fratello maggiore.
Alessandra allattava, ritrasformata nuovamente nel supereroe che conoscevo. Quando riposava, io vedevo un samurai senza armatura, a dormire il sonno dei giusti e dei guerrieri.
E io mi sono ritrovato, per la seconda volta, neogenitore, affrontando quel periodo magico con Matilde addosso, spiaggiata sulla pancia. Eccolo, dunque, ritrovato, il paradiso preumano di cui parlava Lorenz.
Di notte o di giorno, mattina presto o primo pomeriggio o sera. Sul letto, sulla poltrona, con la fascia, con o senza maglietta, io e Matilde stavamo addosso l’una all’altra. Io la zattera nell’oceano, lei la naufraga che dorme. Io l’isola, lei Robinson.
Io ero morbido come un cuscino di piume, caldo come un caminetto d’inverno, alto come una torre su una scogliera; il mio petto vasto come praterie, sicuro come un castello.
Lei stava lì sopra, con le mani in alto, completamente arresa, totalmente, inesorabilmente vulnerabile. È uno strano paradosso che la sua massima vulnerabilità coincida con il mio desiderio totalizzante di protezione: è il suo potere su di me. Adorabile come solo i bambini appena nati sanno essere, di una tenerezza che raggiunge zone abissali del cervello, che prende più il corpo che il cervello, più l’addome che il cuore. C’è un verbo greco usato spesso nei vangeli: σπλαγχνίζομαι, un muoversi di viscere, una compassione di intestini.
È sempre bello ritornare mammiferi in questo modo. Lo scoprii già con Tommaso: se la gestazione è cosa da mamme, l’esogestazione è cosa da papà. Le mamme hanno la tetta, (tetta latte, tetta nanna, tetta casa, Tetta Tutto); i papà hanno il petto, la pancia, le braccia, la schiena. Noi non allattiamo, ma possiamo tenere, abbracciare, portare. La tengo lì sulla mia pancia, fuori ma con la stessa finalità: stare qui insieme, essere qui insieme.
Pensavo spesso in quelle settimane che, nella loro semplicità, azioni così semplici siano un punto fermo nello spaziotempo: se c’è una cosa di cui non potrò mai pentirmi, neanche quando sarò vecchio e prossimo alla morte, è di aver tenuto mia figlia neonata decine di ore addosso. Sono ore giustificate, come diceva San Paolo, ore degne di essere giudicate da qualsiasi dio. Ore che non ho sbagliato. Ore che tuttora non sbaglio.
Appoggiati e incastrati esattamente come due pezzi di Lego, spalmati l’uno all’altro come pane e nutella, in un’abbraccio senza braccia, Matilde mi insegnava a stare nel paradiso preumano: senza dolori, senza paura.
Dopo qualche mese, il nostro abbraccio si è evoluto. Lei è più lunga e pesante, decisamente più sveglia, si trasforma di giorno in giorno in una bambina vera, come Pinocchio.
Abbarbicata su di me come un koala su un eucalipto, o appollaiata sul braccio come un pappagallo con il suo pirata, o seduta sulle mie gambe come il piccolo buddha su trono, o il cangurino nel suo marsupio, o una scimmietta aggrappa alla madre. Dopo un anno, in questa trasformazione da animaletto a umano – diventando una bambina vera, come Pinocchio – io e Matilde dormiamo insieme nel lettone, tutta la notte. Ci sdraiamo, e lei sa dove mettersi, sa dove incastrare la testa, con il braccino sopra il mio petto. Mi stupisco sempre di questo gesto perfetto.
La prima epifania, cinque anni fa, fu di rendermi conto che questa nuova, travolgente vulnerabilità era una benedizione: volevo voler bene in questo modo da molto tempo, volevo essere così aperto, volevo prendermi cura.
Il mio abbraccio era castello e fortezza, e io proteggevo il mio tesoro. Credo che sia uno di quei sentimenti che discrimina l’adolescenza da un “adultità” vera e propria.
Dopo qualche anno, non è cambiato: prendersi cura è un sentimento meraviglioso, uno dei pochi che dona un senso alla vita. Mi è chiarissimo come sia una fortuna poter rendere giustizia a questa fame biologica che urla in ogni mia cellula. È così facile sentirsi travolti dall’amore per una creaturina del genere.
Allo stesso tempo, a questo secondo giro di giostra, mi è più evidente quanto il mio abbraccio non sia differente da quello di Matilde: cerco sicurezza in lei quanto lei la cerca in me. Cerco casa e nido, mi rifugio nel suo collo per le stesse ragioni in cui lo fa lei. Entrambi siamo aggrappati, entrambi ci sosteniamo, nel reciproco abbraccio, sospesi.
Buon compleanno Tilli.
