An empty room apart from a librarian, is merely a room with a librarian

Lankes dice:

A room full of books is simply a closet but that an empty room with a librarian in it is a library.

Secondo me non è vero (e neanche secondo Lane Wilkinson: ottimo post e commenti qui) a meno di non accettare la stessa metafora con scuola e insegnante, ambulatorio e medico. In fondo, è solo una questione di parole, e di che significato diamo alle parole.

Una definizione più accurata è funzionale: se intendo con scuola il luogo dove una persona apprende tramite l’interazione con un insegnante, allora stanza + studente + insegnante = scuola.

È una definizione che posso tranquillamente accettare, d’altronde siamo noi a definire le parole, basta mettersi d’accordo.

Però, a questo punto, secondo me lankes si ferma e non dovrebbe: si spinge molto in avanti in una direzione, ma non nelle altre. Perchè una stanza con due amici che imparano non è una biblioteca o una scuola? Cosa realmente intende con “bibliotecario” (che, nella mia esperienza, è tutto tranne che un “facilitatore di conversazioni”)?

A me sembra che ci siano tre fallacie (collegate) nel ragionamento:

  • Autorità =/= autorevolezza: se c’è una cosa che Wikipedia ci ha insegnato è che l’autorità è morta. Non importa chi sei o che studi hai fatto, ma ciò che dici e la validità delle tue fonti e dei tuoi argomenti. Certo, c’è una correlazione fra i tuoi studi, il tuo lavoro e le tue competenze. Ma sappiamo tutti che non c’è una conseguenza logica fra essere esperto in un ambito e dire cose sempre corrette in quell’ambito. (Bonus).

  • Dilemma dell’innovatore: in questo senso, forse, Lankes forza la mano, tenta tropo esplicitamente di salvare la forma bibliotecario, la forma biblioteca. Perchè non accettarne la scomparsa, smetterla di chiamarlo con nomi che non hanno più senso? La critica che gli viene mossa più spesso è che lui sta distruggendo il ruolo del bibliotecario, lo sta trasformando in qualcosa che non è. In parte, sono d’accordo con la critica: io però ritengo che faccia bene a farlo.

  • Paradosso di Don Milani:

Spesso gli amici mi chiedono come faccio a far scuola e come faccio ad averla piena, insistono perché io scriva per loro un metodo, che io precisi i programmi, le materie, la tecnica didattica. Sbagliano la domanda. Non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare per fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter fare scuola.

Questo è forse uno dei punti più critici.
Io ho il serio dubbio che Lankes abbia ragione, pur con tutti i suoi errori, nel proporre una nuova figura di bibliotecario. Ma ho paura che siano pochissimi i professionisti che abbiano le giuste qualità e competenze (professionali, sociali, emotive), per poter davvero essere “facilitatori di creazione di conoscenza”.
La mia percezione è che moltissimi bibliotecari (come moltissime altre persone in moltissime altre professioni diverse) siano diventati bibliotecari proprio per non parlare con le persone, per stare coi libri, per mettere ordine al mondo attraverso il catalogo.
Se così è, c’è poco da fare, a meno ovviamente che queste persone non cambino idea e ci si mettano d’impegno.
C’è sempre una possibilità che le persone cambino idea: credo che, in parte, la parte retorica e ispirazionale dell’Atlante vada proprio in questa direzione.

Pubblicato da aubreymcfato

Digital librarian, former president of Wikimedia Italia.

22 pensieri riguardo “An empty room apart from a librarian, is merely a room with a librarian

  1. Se partiamo da qui:
    «La mia percezione è che moltissimi bibliotecari (come moltissime altre persone in moltissime altre professioni diverse) siano diventati bibliotecari proprio per non parlare con le persone, per stare coi libri, per mettere ordine al mondo attraverso il catalogo».
    la “professione” bibliotecaria diventa un paravento, perché ciò che “fa” il bibliotecario, le funzioni che svolge, vengono visti come il risultato di una disposizione psicologica che anche in assenza di aggettivi espliciti viene presentata come una disposizione caratteriale, una psicologia infelice, che consiste nel ritrarsi dal mondo e soprattutto dalle persone e usare libri, scaffali, banconi come paraventi, scudi, nascondigli ombrosi e rassicuranti. In sostanza si vuole far credere che ciò che si chiama la “professione” è un’illusione. Non contano veramente quell’insieme di elementi teorici che danno fondamento all’azione pratica e che insieme ad altre professioni come quelle della filiera del libro, cooperano a formare un insieme complesso e sofisticato pensato per dare risposta a esigenze fondamentali. No. Rimane solo la psicologia che spiegherebbe tutto. Seguendo questo ragionamento, cose come dibattiti, riviste, comunicazione scientifica, convegni, tutto ciò che fa parte integrante di qualsiasi professione che rivendica delle basi “scientifiche”, diventano semplici sovrastrutture per nascondere un disadattamento psicologico. Poi qui il bibliotecario coincide un ruolo unidimensionale: è un catalogatore. Punto. Non ci sono altri ruoli. Il reference service non può esistere in questa biblioteca di disadattati. Né esistono quelli che fanno formazione. I corsi di information literacy non esistono. Semplificazioni, anzi caricature, vengono in mente certe caricature di Leopardi.
    «Se così è, c’è poco da fare, a meno ovviamente che queste persone non cambino idea e ci si mettano d’impegno.»
    Effettivamente…
    E qui entra in gioco il docente di Syracuse: il suo errore sarebbe quello di non aver considerato la psicologia testè descritta del “bibliotecario”. La sua proposta di ridefinizione della professione sarebbe un progetto ambizioso, anzi visionario, destinato a infrangersi contro la pochezza umana del soggetto per il quale sarebbe stata concepita. Insomma: la proposta del docente di Syracuse teoricamente è bella e “giusta”. Sarebbe utilissima, sarebbe proprio quello che ci vuole per migliorare la società. Ma è irrealistica. E questo per colpa del “bibliotecario”: l’intralcio al progresso della società. Effettivamente a questo punto non resta che concludere: facciamone a meno :-)

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      1. sei tu che hai scritto questo: «siano diventati bibliotecari proprio per non parlare con le persone, per stare coi libri». È la caricatura della “psicologia” del lettore o bibliotecario come disadattato asociale. È spiegare una professione con chiavi “psicologiche”… Come si fa a leggere diversamente?

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      2. Pierfranco, io ho scritto una frase, forse non felicissima, ma all’interno di un post più lungo. Se pensi che quello sia il mio *unico* pensiero sulla professione bibliotecaria, sbagli e di grosso. Rivendico che, come in tutte le cose, la compotente sociale/psicologica è importante. Ho conosciuto un sacco di bibliotecari asociali (che sono comunque meno dei matematici asociali), e non ce li vedo a fare i “facilitatori di creazione di conoscenza”. Non, come dico dopo, se mantengono l’idea che sono qui per mettere Ordine all’universo e che il catalogo è profeta di questo Ordine.

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  2. Esaurita la vena ironica che suscita la conclusione del post, proviamo a dare una risposta seria. Ripartiamo da qui:
    « La critica che gli viene mossa più spesso è che lui sta distruggendo il ruolo del bibliotecario, lo sta trasformando in qualcosa che non è. In parte, sono d’accordo con la critica: io però ritengo che faccia bene a farlo.»
    Parliamo del “facilitatore” dei processi cognitivi, quello che secondo il docente di Syracuse dovrebbe essere il ruolo nuovo del bibliotecario. Domanda: questo ruolo presuppone attività che il bibliotecario non sa fare (e magari nemmeno vorrebbe fare), oppure è sbagliato chiedergliele? Fin dall’antichità il ruolo del facilitatore dei processi cognitivi è sostanzialmente il ruolo che svolge un insegnante, qualsiasi siano il suo livello e specializzazione. Si chiama insegnare e lo si può fare ovviamente in tanti modi, dalla trasmissione di nozioni che presuppone la passività di chi ascolta alla forma di insegnamento soft e personalizzata che è suggerita dal termine “facilitatore” e che sembra coincidere con il lacvoro di una specie di personal trainer, quindi un insegnante che punta a stimolare l’allievo. Il punto è: perché ora questo ruolo dovrebbe essere svolto da quello che finora abbiamo chiamato “bibliotecario” e che nel quadro delle professioni della società odierna fa altro (ma non per cattiva disposizione psicologica)? Dall’età moderna in poi è nata e si è sempre più sviliuppata la specializzazione: sia in campo conoscitivo che professionale. Le professioni sono distinte, sempre di più. Il loro insieme risponde ai bisogni della società: ma senza scavalcamenti. Per arrivare a concordare con quello che propone il docente di Syracuse bisognerebbe: 1) ignorare o negare l’importanza delle funzioni svolte dai bibliotecari; 2) pensare che d’ora in poi altri (chi?) le svolgeranno e: 3) pensare che possa esistere (formarsi) un personal trainer cognitivo adattabile a qualsiasi esigenza gli venga posta. Arduo, specie se si pensa alla varietà dell’utenza che frequenta una biblioteca pubblica, alla varietà dei suoi interessi. Come si potrebbe fare il personal trainer di ognuna di queste diverse persone? Facciamo un paragone con lo sport: sarebbe come immaginare un trainer multifunzione: nuoto, corsa, salto in alto ecc. ecc. capace di rispondere a chiunque gli si presenti e di allenarlo in una specifica displina sportiva. Facciamo un secondo paragone con un altra situazione in cui è fondamentale che esista distinzione tra professioni, e allo stesso tempo sinergia: è il caso del farmacista e del medico. Chissà se qualcuno ha mai pensato che i farmacisti che si limitano a vendere, mettere in ordine, catalogare medicine siano inutili. Che sarebbe molto più utile se facessero anche i medici, se non si limitassero a darti una scatoletta di pillole solo quando gli presenti una ricetta, perché questo è troppo poco e la gente ha bisogno di medici. Chissà se qualcuno ha mai pensato che la distinzione tra le professioni di medico e di farmacista è superata, che stare dietro scaffali pieni di scatolette e sciroppi è un lavoro non abbastanza utile e se il farmacista non cambia rischia di essere visto come obsoleto. Non so. Mi pare che mettere in causa il sistema delle professioni, le loro distinzioni e le loro sinergie, sia una cosa decisamente oziosa che non porta nessun risultato, non foss’altro perché crea più problemi di quanti pretenda di risolverne. O si disegna un nuovo quadro complessivo delle professioni in maniera da collocare al suo interno la ridefinizione della professione che interessa, o non si capisce come e perché si possa modificare solo un pezzo di un ingranaggio complesso.

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  3. Secondo me la tua metafora è molto buona, e dici tutto bene, tranne che secondo me non metti insieme i fattori. Nella nostra società *manca* la figura che descrivi. Se i bibliotecari sono i farmacisti per la gente comune, chi sono i medici specializzati? Non ci sono. È una figura che manca, quella del personal trainer cognitivo. Manca per tutte le persone normali e diverse (come dici tu) che frequentano le biblioteche, che essendo un terzo luogo vengono appunto frequentate da tutti.
    Gli insegnanti lavorano solo all’interno di istituzioni quali scuola e università. Chi insegna ai lavoratori, agli operai nel tempo libero? Nessuno. Nè individualmente nè a livello di comunità. Mancano i medici, mentre abbiamo i farmacisti. Per questo stiamo chiedendo ai farmacisti di fare qualcosa di più. Bravo Pierfranco, mi riciclo la metafora.

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  4. Io credo che i farmacisti dovrebbero fare i farmacisti e i medici, i medici. Credo non ci sia nulla di male. Vorrei però farmacisti curiosi, medici curiosi e soprattutto bibliotecari curiosi. Probabilmente non servono più catalogatori in senso stretto perché è chiaro che un ordine solo non esiste, ma avere curiosità per i tanti modi in cui si può mettere ordine credo serve a trovare il metodo più funzionale, più efficace, di mediazione o disintermediazione della conoscenza – almeno per qualcuno e almeno in un certo tempo -. Sicuramente non basta (e su questo punto sono fermissima) essere estroversi, simpatici ed empatici per fare i bibliotecari ma è necessario avere tanta curiosità verso il genere umano, verso le infinite possibilità della nostra mente e delle menti altrui. Noi bibliotecari dovremmo essere in grado di soddisfare le curiosità degli altri e di facilitare questa spesso affannosa ricerca del “sapere”: se noi per primi non abbiamo sete di nulla, nemmeno di comprendere altre sfumature della nostra professione, come potremo percepire i bisogni dei nostri utenti? Io Lankes, per l’appunto, non l’ho ancora letto ma rimedierò!

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    1. In realtà a me la metafora interessa molto, perchè le figure professionali cambiano o dovrebbero cambiare con il mondo che cambia. Una volta imparavi a scuola e poi a lavoro, e finita lì. Oggi imparare è fondamentale se vuoi mantenere un lavoro, o trovare a 30, 40, 50 anni. Io credo che una domanda seria per professionisti del life long learning ci sia eccome.

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  5. Ciao, solo una storiella (che non risolve certo una questione seria e difficile). Ho chiesto (e non, come potevo, imposto), a tutti i dipendenti di fare qualche turno di servizio sul bibliobus; l’ho chiesto anche a quelle “mummie asociali del fondo antico” (così a volte li ho sentiti chiamare). Hanno accettato in due, l’esperta di manoscritti e quello di cartografia. Risultato? Provate a chiedergli ora di rinunciare al turno…

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  6. Riassumendo, il ragionamento proposto è il seguente: è emersa la mancanza di una figura essenziale per realizzare la società della conoscenza (usiamo un po’ di termini enfatici che vanno di moda) e quindi facciamo coprire questa figura al cosiddetto “bibliotecario”. Lo presentiamo come lavoro in più, ma imprescindibile, anzi diventerebbe il vero focus della professione. Perché, gli diremmo, visto che stai in mezzo a tutti quei libri adesso li studi e vai a fare il formatore, anche senza libri, anche nella empty room: tu parli, e quell’altro ti ascolta, prende appunti e studia. Evidentemente si ritiene che il “bibliotecario” abbia oltre che la formazione adatta per prendere sulle sue spalle questo ruolo, anche il tempo, perché in fondo quelle cosette di cui si occupava, dài, diciamocelo, non lo occupavamo tutto il tempo e può farle nei momenti liberi dall’attività principale che diventa quella di formatore. Che cosa ci vuole a occuparsi di selezionare gli acquisti, seguirli, gestire le collezioni, occuparsi di conservazione, catalogare. Al massimo si fa scivolare queste attività considerate ormai secondarie sulle spalle di un cooperativista. Il bibliotecario invece farebbe il salto professionale verso un’attività “socialmente utile” e quindi finalmente si scrollerebbe dalle spalle il complesso di inferiorità che lo affligge relativamente al riconoscimento sociale del suo tradizionale ruolo (su questo ha sempre scritto e detto molto Ridi: il bibliotecario italiano arriva casualmente a questa professione, non gli piace, non la comprende, e quindi si attacca a qualsiasi teoria gli prometta uno stravolgimento. In Italia il docente di Syracuse riceve applausi perché solleticherebbe il narcisisimo bibliotecario, depresso da una società tra le più disinteressate a questa professione).
    Ma è vero che esiste questa casella da colmare? è vero che la risposta a certe esigenze è questo “personal trainer cognitivo”? non è una definzione tipica della società della prestazione, quella dove chi ha soldi e tempo contato si prende un personal trainer perché non deve fare jogging come un comune mortale. Nulla deve essere casuale, neppure le corse nel parco, e quindi neppure la casualità del browsing di una scaffalatura, per es., è una cosa positiva. No alla serendipity, sì alla programmazione: tutto deve essere studiato, pertanto assistito, organizzato da un esperto, perché qualsiasi attività deve rendere e dare risultati programmati. Quindi società della conoscenza reinterpretata come vuole la società della prestazione? Ma non è una americanata? More on this soon.

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    1. La figura del personal trainer (quindi personale e per persone ricche) l’hai tirata fuori tu. Quella del farmacista/medico secondo me è una metafora più esatta e popolare. Si tratta di coaudiuvare e facilitare la società della conoscenza, riconoscendo che l’accesso all’informazione è cambiato e non esiste solo la carta. A me sembra che *questa* sia una visione riduttiva della professione. Comunque mi pare che io e te su questa cosa possiamo smettere di discutere, stiamo girando in tondo da un po’.

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  7. Entriamo più nello specifico dei dubbi che ispira questa ipotetica figura di assistente all’autoformazione prevista da D.L.: il ruolo che secondo Andrea Zanni è scoperto e che D.L. assegnerebbe al “bibliotecario” nuovo o comunque vogliamo chiamarlo. In realtà a mio parare non è così: le risposte esistono già, numerose e differenziate. Vediamone alcune. Se parliamo di esigenze professionali, che ormai vanno sotto il nome di lifelong learning e che sono rese necessarie dall’esigenza di adattarsi a un mondo del lavoro che cambia in continuazione, allora sono esigenze che trovano da tempo risposte istituzionali: i corsi di formazione e aggiornamento finanziati dalle Regioni (che in Italia sovrintendono alla formazione professionale) usando fondi appositi di provenienza europea. È formazione svolta da formatori specifici che lavorano in scuole specifiche. Se si pensasse che qualcosa non va, che non funzionano bene, che non rispondono a tutte le esigenze, allora bisogna migliorare le cose lì, ma perché queste funzioni dovrebbe passare alle biblioteche o comunque le vogliamo chiamare in una visione rinnovata? Credo che chiunque, al di fuori di questa comunità, sarebbe stupito da una simile proposta perché non si vede il nesso. Un trasferimento di funzioni deve avere delle forti ragioni. Ma qui, perché mai? Se invece parliamo di esigenze non professionali, legate ad aspirazioni personali, cose di cui parla anche D.L., allora esistono per es. i corsi dellìUniversità popolare. Qui si racconta cosa sono e come sono nate: http://it.wikipedia.org/wiki/Universit%C3%A0_popolare «Le università popolari sono istituti che si diffusero a partire dall’800 in tutta l’Europa. I principi ispiratori di tali enti, in tutto il continente, furono quelli di fare avvicinare alla cultura tutti i ceti sociali, specialmente quelli più emarginati (donde appunto il termine popolare che spesso figura nelle denominazioni di tali enti).» Anche in questo caso: una cosa è pensare che così come sono non funzionino, vadano migliorate, un’altra cosa, ben diversa, è pensare che il tutto vada trasferito a una certa istituzione chiamata oggi “biblioteca”. Lo possiamo anche fare: ma allora vorrà dire che semplicemente chiameremo con il nome di “bibliotecari” quelli che tengono quei corsi? È un cambiamento che serve a qualcosa? Ha una maggiore credibilità e riconoscibilità? Consiglio di riprendere in mano a la recensione all’Atlas pubblicata nel 2012 da Anna Galluzzi sul Bollettino AIB là dove esprime i suoi dubbi sul cambiamento di funzione delle biblioteche e i rischi nella riconoscibilità del marchio “biblioteca” facendo l’esempio della pasticceria romana, qui: http://aibstudi.aib.it/article/view/6297/6027
    Ma c’è un altro motivo di perplessità secondo me più sostanziale perché è legato alla funzione svolta dalle biblioteche nel sistema del sapere così come si è costituito lentamente a partire dall’età moderna e che è tutt’ora valida e importante. Lo sviluppo del sapere dopo la formazione scolastica (intendendo anche universitaria) effettivamente non è più un compito affidato a una sola specifica istituzione perché è vista come un’attività complessa che deve svilupparsi a contatto con un sistema del sapere pluralista, fatto di tante diverse fonti e voci: l’insieme complesso delle fonti scritte (che siano a stampa o elettroniche è ovviamente secondario), nessuna delle quali, quando si parla di adulti formati, deve essere presa in maniera “scolastica”, tradizionale, cioè come una fonte oracolare, perché tutte invece devono essere vagliate, confrontate. Una simile modalità di sviluppo della conoscenza basata sul pluralismo ineliminabile e benefico delle fonti di conoscenza, presuppone due cose fondamentali: 1) il senso critico che la persona deve ormai aver sviluppato; 2) la disponibilità, l’accesso, la conservazione delle fonti del sapere. Questa seconda cosa è quello che fanno le biblioteche, e questa seconda cosa rimane fondamentale. Va poi aggiunto che accanto all’istituzione biblioteca esistono altri luoghi e occasioni che alimentano il sistema pluralista del sapere e rendono possibile il perfezionamento e lo sviluppo della conoscenza: sono i luoghi della comunicazione scientifica, cioè i convegni e le riviste, ma anche, passando ad altri livelli, cose come un circolo, un circolo dei lettori, e poi gli scambi intellettuali, la corrispondenza con altre persone interessate, lo scambio di informazioni e pareri. Le persone sviluppano così la loro conoscenza: attraverso tante diverse strade, mettendole assieme. Questo significa che l’assenza di un unico luogo/istituzione che svolga in maniera garantita e specificamente questi compiti e quindi preveda un ruolo specifico di assitente/formatore non è di per sé un vero problema. Anzi, semmai la sua esistenza rappresenterebbe un rischio: quello della eliminazione del pluralismo dei percorsi e delle fonti conoscitive, dei luoghi, sostituito con un unico luogo e mediatore incaricato dalla società/Stato. Questo sarebbe molto pericoloso perché la complessità del pluralismo delle fonti e dei luoghi verrebbe sostituito dalla unicità. Un pericolo che in fondo già vivono le persone adolescenti, che in gran parte finiscono per sviluppare passioni e attitudini che dipendono dai docenti che hanno avuto, nel bene e nel male. A maggior ragione l’età adulta dovrebbe essere vista come la fine sospirata di questa dipendenza intellettuale da un unico mediatore deciso dalla sorte (spesso) e la conquista di un rapporto libero, oggetto di scelta, con il mondo della conoscenza, senza mediatori unici, incaricati di un compito “statale” (da come ne parla D.L. questo mediatore è di fatto uno “statale” che svolge un lavoro che deve essere garantito dalla società). Pertanto la biblioteca svolge la funzione di luogo di non “mediazione” scolastica del sapere e questo è un bene. Deve essere così. È il luogo della crescita non mediata da qualcuno, a contatto diretto (anche rischioso) con il pluralismo ineliminabile delle fonti conoscitive e presuppone l’esigenza di imparare a fare da sé un percorso di conoscenza critica. Questo è il vero sapere dell’età adulta e non possiamo tornare a metterlo nelle mani di un mediatore unico deciso dal caso perché sarebbe un controsenso. Ma se invece parliamo di esigenze di formazione molto specifiche, legate alla professione, allora effettivamente ricadiamo in un discorso più tradizionale che richiede un mediatore-formatore e questo è inevitabile. Ci sono istituzioni specifiche che se ne occupano: scuole professionali. Non è una casella vuota e quindi non si capisce perché qualcuno da tutt’altro settore dovrebbe andarla a occupare mandando a casa i formatori veri. Con quale autorevolezza, poi? Qui ho finito e so di avere approfittato della pazienza di chi legge.

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    1. Pierfranco, ho l’impressione che le tue considerazioni vadano talvolta al di là della semplice interpretazione di quanto afferma Lankes nell’Atlante e sfocino in osservazioni di altra natura, seppur molto interessanti e stimolanti. Mi riferisco ad esempio a quando scrivi di “personal trainer cognitivo” o quando affermi che “gli diremmo, visto che stai in mezzo a tutti quei libri adesso li studi e vai a fare il formatore”.
      Probabilmente ci stai già lavorando e forse te lo ha già chiesto qualcun’altro, però ci tengo ad ufficializzare la richiesta anche io: perchè non organizzi tutte le osservazioni fatte qui e in altri post sull’Atlante?
      Sarebbe molto più comodo non solo leggerle evitando malinterpretazioni dovute alle diverse versioni, ma sarebbe anche più facile rifletterci su e discuterne senza saltabeccare da un punto all’altro del web.
      Io, per quanto vale, te ne sarei grata.

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      1. Mi fa piacere Chiara che trovi interessante e stimolante le mie riflessioni sparse. Non credo però di andare al di là della interpretazione / sintesi del succo del discorso lankesiano sul nuovo ruolo del bibliotecario. In questo momento non ho citazioni sottomano e non ho tempo di cercarle, ma sono numerose e molto definite le sue affermazioni sul nuovo “bibliotecario” che deve preoccuparsi della crescita culturale dei suoi utenti in maniera diretta, preoccuparsi che ogni lettura (anche di romanzi, dice) dia un frutto a livello degli obiettivi di crescita individuale di quelle persone. In sostanza deve preccuparsi non tanto (non solo) di quello che leggono ma di quello che ne ricavano: nel senso che quello che ne ricavano dovrebbe rispondere a un loro bisogno di crescita, anche solo spirituale/individuale, (chiamiamola così), cioè non necessariamente con fini pratici predefiniti. Questa riflessione, come nota più volte Andrea, in fondo è lo sviluppo della notissima legge di Ranganathan: “Books are for use”: qualsiasi possa essere questo “use”. Che io non intendo certo mettere in discussione. Quello che metto in discussione è l’interpretazione di quella legge e le conseguenze che ne ricava Lankes, che secondo me costituiscono un passaggio indebito, che distrugge il ruolo della biblioteca come ho descritto, cioè come luogo pluralista di esperienze conoscitive non mediate da qualcuno in particolare, neppure, anzi a maggior raggione, neppure incaricato dallo Stato e chiamato (o meno) “bibliotecario”. Perché la riflessione sull’affermazione di Ranganathan non giustifica il fatto che dell’uso che si fa dei libri sia responsabile il “bibliotecario” inteso come responsabile della crescita spirituale/conoscitiva delle persone. Questa è la responsabilità di un formatore/pedagogo, e non riconoscerlo vorrebbe dire dare al formatore/pedagogo il nome di “bibliotecario”, cambiamento di nome che non si vede che frutto porti. E poi rimane aperta la questione su chi farebbe più il “bibliotecario” come lo intendiamo ancora oggi. Insomma: un cambiamento che aprirebbe un sacco di problemi del tutto irrisolti a Syracuse e modificherebbe la funzione della biblioteca facendola diventare una specie di scuola multifunzione con corsi individuali a richiesta. La “empty room” è proprio l’immagine di questa specie di scuola o consultorio di psciologo. Non dico che non sia utile: dico che esistono già risposte differenziate e che la biblioteca ha un’altra funzione. Ma tu volevi tutte le riflessioni messe per ordine. Non sono già qui tutte quante?

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  8. Per chi avesse interesse ad un confronto diretto con Lankes, vi segnalo che il 6 luglio sarà alla Biblioteca San Giorgio di Pistoia per un incontro con i bibliotecari

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  9. Beh, non tutte le tue osservazioni sono qui Pierfranco, da altre parte hai detto altre cose, ma cerco di risponderti rapidamente a queste per non abusare dello spazio di Andrea e rimandando ad un incontro futuro (prossimo, spero) il resto.

    Scrivo così come mi vengono, senza citazioni e senza rileggere troppo, per cui perdona la forma molto colloquiale e del tutto informale.

    Scrivi bene qui “deve preoccuparsi della crescita culturale dei suoi utenti” (io avrei detto comunità, ma va bene uguale :) ) no “personal trainer” come scrivi nel post prima.
    Lankes parla di comunità non necessariamente di singola attività del singolo utente che da come scrivi tu sembra sia braccato dal “bibliotecario” in modo invadente, tipo stalker, che vuole neccessariamente sapere i fatti suoi e forzarlo ad acquisire qualcosa non appena mette piede in biblioteca.

    Io non la interpreto così, io la vedo come un’opportunità in più di assistere l’utenza nel caso lo voglia. Ho spesso l’impressione che gli utenti arrivino in biblioteca con grandi aspettative e ne escano delusi perchè non hanno trovato ciò che cercano che per assurdo magari è proprio sotto il loro naso. Non mi riferisco certo alla comunicazione dell’esistenza dei servizi o alla consultazione del catalogo (cose peraltro coperte da attività come il reference), ma a qualcosa che va oltre le collezioni e che appunto porta a creare conoscenza.

    Sono profondamente d’accordo con te sulla distinzione tra bibliotecario e pedagogo e credo che su questo Lankes e tutti noi dovremmo riflettere a fondo, magari appoggiandoci alla letteratura che da decenni esiste sulla questione dell’information literacy in biblioteca.
    Sulla questione delle attività “normalmente” svolte dal bibliotecario, anche qui l’ho interpretata diversamente da te. Credo che sia una questione di specializzazione, cosa di cui si discute anche in questo caso da decenni e che viene normalmente applicata in tutte le realtà che non siano la one-person-library (scusa l’inglesismo, ma sui due piedi non mi viene una traduzione decente in italiano). C’è chi cataloga, chi seleziona le collezioni, chi cura il sito e il catalogo, chi sta al bancone, e non lo vedo come un problema, non è che chi si occupa del catalogo si senta meno bibliotecario perchè non fa reference, credo.
    Lankes non trascura questi aspetti relegandoli “alla coperativa” come scrivi tu, semplicemente sostiene che la missione di tutte queste figure messe assieme è una, ed è la ben nota.

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  10. Sono d’accordo che la metafora usata da Lankes non è condivisibile al 100%, ma non la rifiuterei come fai tu, perché secondo me punta in una direzione giusta.
    Credo infatti che sia molto importante dire che non è vero soprattutto l’opposto: una stanza piena di libri non è una biblioteca. (E’ da questo estremo opposto che Lankes prende le distanze – e lo fa perché questo estremo è ancora molto presente nella vulgata comune). Occorre qualcosa in più per fare di una stanza piena di libri una biblioteca: per Lankes è il ruolo di “facilitatore” del bibliotecario, per me il ruolo di “servizio” del bibliotecario. (Facilitatore, dopo l’esperienza di Tallinn, è una parola che odio, e che Lankes solo in parte mi ha aiutato ad accettare), però su questo io sono d’accordo con Lankes.

    Nell’ultimo paragrafo secondo me sposti il discorso, e noti come “nella tua esperienza” i bibliotecari non sono adeguati a fare questo. Questa esperienza è anche la mia, e da questa nasce la mia rabbia e la mia frustrazione verso una classe di professionisti che per tutta la vita si è fermata al di qua del “non è di mia competenza” a cui ti riferisci nel post successivo. Il problema però non è che “non siamo” (adesso) quello che vorremmo o potremmo essere; il problema è che se vogliamo rinnovare il nostro ruolo dobbiamo iniziare a *progettarlo* adesso.

    Credo che i discorsi sull’importanza dei bibliotecari (come quello di Lankes) si basino più sul “come vorremmo essere” che non sul “come siamo” (avevo avuto una bella chiacchierata con Carlo Revelli proprio su questo). E’ sufficiente cambiare le “job description”: non è possibile dall’oggi al domani trasformarci in qualcosaltro, è ovvio. Ma è possibile iniziare a definire quello che vogliamo essere, e lavorare attraverso la politica e la formazione a progettare le strutture e le professionalità di domani. Questo richiede tempo, ma richiede prima di tutto una presa di consapevolezza: finché questa non c’è, non ci sarà nessun cambiamento.

    Sempre che lo vogliamo, nessuno ci obbliga. Ma credo che negare l’esigenza di un cambiamento sia semplicemente da folli che non hanno contatto con la realtà.

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