Costruire comunità

Da un paio di settimane sono finito dentro il vortice dei siti StackExchange: sono siti di domande e risposte (quindi, non forum), in cui diverse comunità di esperti si riuniscono attorno ad un interesse (la progammazione, la cucina, la filosofia, la birra). I siti sono quasi interamente gestiti dalla comunità stessa, sono sotto licenza libera (CC-BY-SA), e ovviamente sono tutti in inglese.

StackOverflow (sulla programmazione) è il più famoso di tutti. Ha migliaia di nuove domande al giorno, centinaia di migliaia di interazioni fra utenti, e può vantare una comunità fra cui ci sono letteralmente i migliori programmatori del mondo, che magari si divertono a rispondere a domande triviali o complicatissime.

L’aspetto più interessante (unico nel suo genere, per questi tipi di siti) è la gamification, cioè un (complesso) sistema per cui un utente riceve punti per domande fatte e risposte. Tutto può essere votato (con voti positivi e negativi), e tutto contribuisce alla personale reputazione.

La gamification (cioè il “dare punti per le azioni svolte”) è qualcosa che giochi e videogiochi conoscono da decenni, e a suo modo anche la scuola e l’università (coi voti, per esempio). Sfrutta il semplice e illogico fatto per cui noi umani faremmo di tutto per aumentare questi numerini. Siamo fatti così, ci basta una metrica e subito vogliamo vincere.

Codice

Stackoverflow è una comunità di pratica (la comunità dei programmatori), con valori pressochè condivisi, un linguaggio condiviso, e con la meravigliosa caratteristiche che tutto ciò che questa comunità produce è codice, e questa cosa è straordinaria, perchè il codice

  • si scrive
  • si compila, cioè si vede l’effetto che fa.

Questo significa che la comunicazione fra persone può essere praticamente senza perdita di informazioni: un utente fa una domanda precisa, allega il codice che non gli funziona. Altri utenti passano e possono vedere esattamente quello che dice, possono tentare una soluzione, provarla e se funziona scrivere una risposta.
C’è questo fatto ciberneticamente rilevante che il codice permette un tight feedback loop: posso in tempo brevissimo vedere l’effetto che fa una determinata modifica, produco un risultato tangibile e tendenzialmente univoco. (Esercizio per il lettore: trovate un’altro ambiente in cui succede tutto questo).
Non è un caso che StackOverflow sia il più di successo fra gli oltre 100 siti dedicati di StackExchange (e nel suo diverso ambito, anche di Quora). Alcuni datori di lavoro iniziano a guardare anche la reputazione che un utente ha all’interno della comunità.

La cosa secondo me meravigliosa di StackOverflow è che sono riusciti ad aggirare, tramite un’accurata e geniale organizzazione (cioè il design dell’intero sistema), il fatto che ai programmatori non piace spiegare le cose ai niubbi)(cioè, i dilettanti o chi sta imparando a programmare)(in un certo senso e in parte, aggira il RTFM).

La reputazione, all’interno della comunità (che sia più o meno definita), è un ottimo incentivo, e unito al fatto che StackOverflow è davvero utile.

Design di comunità

Se dovessi definire uno dei problemi del prossimo millennio, è il design delle istituzioni sociali. Cioè, creare progetti comunità che abbiano un obiettivo e aiutarle a perseguirlo.
Questa cosa c’è da sempre anche nel mondo reale, ed è dannatamente difficile.
La cosa bella è che nel mondo virtuale è molto più facile, perchè nel virtuale le azioni di una persona sono limitate (fai like, scrivi un commento, guarda un foto), e quindi si possono direzionare e indirizzare.

Il co-fondatore di StackOverflow, Jeff Atwood (che già dopo un paio di giorni si sta guadagnando un posticino nel mio pantheon personale), non fa mistero che uno degli obiettivi “nascosti” del progetto era quello di insegnare ai programmatori a comunicare meglio, a spiegarsi e a spiegare anche a persone non intelligenti (o logiche) come loro.

Stack Overflow’s goal isn’t just to have quality answers or help developers solve technical problems. “A programmer’s job is to communicate with users to find out what people want,” he explains. “We’re tricking developers into being better communicators.” By making developers better at the non-technical aspects of programming, Atwood hopes Stack Overflow can make the internet better for everyone.

Atwood ha lasciato SO un paio di anni fa, e ha creato Discourse, che invece di essere un sito di domande e risposte vuole ospitare conversazioni e discussioni, incentivando i comportamenti positivi (e disincentivando i negativi).

Biblioteche

E in tutto questo, la (personale) nota dolente: dove sono i bibliotecari?

Finalmente sto studiando con calma l’Atlante di Lankes, e tutte le volte che parla di co-creazione di conoscenza, bibliotecario come “facilitatore”, di empowerment dei membri e della comunità, mi chiedo: si, ma quindi, concretamente?
Perchè parlare del futuro quando si sta sistemanticamente ignorando il presente? Cosa stanno facendo i bibliotecari?

Tutti gli spazi di co-creazione della conoscenza che conosco e funzionano siano decisamente non bibliotecari, e sono appunto:

  • Wikipedia e i progetti Wikimedia
  • Quora
  • siti di StackExchange (oltre 100, e in crescita)
  • Zooniverse

Pensando anche solo a StackExchange (dategli un’occhiata, sul serio), mi pare che sia un paio di ordini di grandezza sopra a qualsiasi servizio di reference immaginabile. Il servizio di reference (che in Italia praticamente non esiste) è stato, è o sarà da comunità di appassionati che si rispondono fra di loro.
Non dubito che i bibliotecari potrebbero essere utili (anzi, ne sono assolutamente convinto), ma di fronte a degli esperti che hanno voglia di rispondere il bibliotecario, intermediario di una volta, nulla può fare.
Gli esperti stanno iniziando a rispondere direttamente. Internet sta distruggendo anche questa forma di intermediazione.

Se i bibliotecari non si impegneranno seriamente ad evolversi e/o rivoluzionarsi, io la vedo dura.
La vedo dura anche per Wikipedia, con i suoi milioni di utenti al giorno.

Certo, non bisogna dimenticare il digital/information divide: non tutti vanno su Quora o StackExchange, ancora. Perchè sono in inglese, perchè non li conoscono, perchè non c’è tutto. Ma se queste comunità avranno successo (e lo avranno) in qualche anno diventeranno un punto di riferimento internazionale. Sul web funziona così, chi vince piglia tutto.
Abbiamo dunque 5-6 anni per risolvere la questione prima che questi siti diventino il punto di riferimento come è accaduto per Wikipedia e StackOverflow (per la comunità di programmatori).

Non ci sarà mai niente di più facile per un utente che scrivere la domanda su Google e vedere apparire la soluzione corretta. Il fatto è che ci siamo già.

L’unica soluzione che io vedo, dunque, è sempre la stessa: integrare i bibliotecari in queste comunità.
Il contenuto che producono è rilasciato con licenza libera, sono forme di volontariato culturale e sociale, sono in atto regole comunitarie chiare e inclusive, l’impatto in diverse comunità di utenti con bisogni informativi diversi è enorme. Sono beni comuni digitali, amministrati attraverso l’auto-organizzazione della comunità stessa. Sono un terzo luogo, nè privato nè pubblico.

Per Lankes la missione dei bibliotecari è:

to improve society through facilitating knowledge creation in their communities.

Per Wikipedia, è

a world in which every single human being can freely share in the sum of all knowledge.

Il manifesto IFLA-UNESCO delle biblioteche pubbliche parla di empowerment, accesso libero all’informazione, partecipazione attiva dei cittadini per lo sviluppo della democrazia.

Unite voi i puntini.

Update 8 gennaio: CVD.

Pubblicato da aubreymcfato

Digital librarian, former president of Wikimedia Italia.

53 pensieri riguardo “Costruire comunità

  1. Grazie, articolo interessante. Ma quali sono secondo te i “valori pressoché condivisi” della comunità dei programmatori di SO? La logica come criterio privilegiato di conoscenza? Il gusto per il bricolage condiviso? L’autoaffermazione ottenuta grazie al consenso di una comunità di pari?…

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    1. Le cose che dici secondo me ci sono. Non saprei disegnare gli assiomi della “comunità dei programmatori”, e forse non ha senso, ma possiamo analizzare molto meglio il design della “comunità di SO”, che è più definita e ha delle regole, e sono pure scritte.

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      1. Però non era una curiosità retorica: è che la nozione di “disegnare le comunità” mi dà da pensare. Come facilitarne l’autocostruzione, quella è forse l’accezione su cui mi piacerebbe ci interrogassimo. Probabilmente è lo stesso che intendi tu, ma la scelta del termine disegnare implica una struttura senza la quale la comunità probabilmente si dissolverebbe (magari per risorgere altrove, in altra forma). Ovvero non si tratterebbe di una comunità naturale, ma di un insieme di persone tenute insieme da “regole” create da altri (per quanto funzionali e successivamente condivise). Sono solo pensieri al volo.

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      2. (non so perchè non riesco a risponderti sotto, lo faccio qui) In realtà dovremmo fare una lunga discussione (non scritta, ma di persona e a mio parere piuttosto alcolica) per riuscire a capirci. Penso che quello che stai “implicando” sia un falso problema, cioè che non esista una dicotomia fra comunità naturale/artificiale, e penso che il corretto design di un software possa aiutare una comunità a funzionare molto meglio (e tante volte questo significa sopravvivere invece che soccombere). Ovviamente nel design io conto tutto: policy, regole sociali, software. Prova a leggerti un po’ di link che ho sparso nel post, vedrai che Jeff Atwood parla spesso e volentieri di queste cose.

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  2. Che bella riflessione, grazie Andrea! C’è un gruppo di bibliotecari americani che da anni anima “slam the boards” (qui il loro profilo facebook https://www.facebook.com/groups/slamtheboards/). Si danno periodicamente (credo mensilmente) appuntamento su yahoo answer, in un giorno fisso, per rispondere alle domande da bibliotecari, e quindi indirettamente fare advocacy. Su Yahoo le domande sono molto generiche e l’approccio meno sofisticato che su StackExchange. L’esperimento e’ longevo ma l’approccio è differente: quei bibliotecari non vanno su yahoo answer per “fare/creare comunita’” ma per fare advocacy. Non so quanto questa pratica sia efficace e non mi convince del tutto. La tua riflessione mi serve perche’ e’ da un po che penso cosa vuol dire oggi “fare reference” (ehm sarebbe il 60% della mia attivita’ in biblio :-) e, controllando le statistiche, vedo che questa mia attitivita’ nel 2014 è aumentata anziche’ diminuire)…

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    1. Io non ho un’opinione definita e risolutiva, ovviamente, ma sono sicuro che un bibliotecario di reference non sprecherebbe il suo tempo a stare metà giornata a settimana su uno o più di questi siti. E’ un discorso di impatto, si selezione di domande importanti, pure di capire cosa sta succedendo là fuori. E l’advocacy potrebbe essere una (buona) conseguenza indiretta.

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  3. Mi pare molto pertinente l’accenno al digital divide. Non credo però che fra 5/6 anni tutti i cittadini (almeno quelli italiani) saranno in grado di consultare risorse come StackExchange. Poi per i programmatori, ma anche per gli hobbisti come me, StackOverflow è un punto di riferimento. Ma quando si parla di Internet e programmazione è difficile estendere ad altri ambiti (gli esempi sono innumerevoli).
    Il ruolo del bibliotecario, nel medio termine, potrebbe essere quello di imparare a partecipare a queste comunità per aiutare gli utenti che da soli non riescono. Insomma lavorare per colmare il digital divide, che in Italia ne abbiamo TANTO bisogno.

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    1. Sicuramente non sono stato chiaro nel post (i link sono tutti post/articoli che mi sono letto, per cui c’è tanta carne al fuoco), ma io non intendevo solo StackOverflow. Per esempio, Academia.SE è un sito che mi sto godendo enormemente, e che secondo me è utilissimo per dottorandi, ricercatori e professori. Con domande che spaziano fra il counseling psicologico all’open access agli stili citazionali. Dato che i siti SE sono oltre 100, la competizione inizia a farsi interessante.

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      1. E’ verissimo. Sinceramente non conoscevo academia.se ed è veramente molto interessante oltre che molto pertinente con il lavoro di un bibliotecario in università.

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  4. Ogni tanto temo di di soffrire del complesso del brutto anatroccolo che non diventerà mai cigno, poi invece discutendo la percezione cambia…un bibliotecario di reference non dovrebbe stare le mezze giornate a settimana a cercare o dare risposte nelle piattaforme online. Evidentemente il compito del bibliotecario di reference è più complesso e articolato. Poi c’è la questione spinosa del digital/ information divide, a ridarci altra forza. Se dovessi scommettere su quali saranno le politiche e gli investimenti pubblici prossimi venturi e i conseguenti ruoli bibliotecari oggi come oggi la mia classifica è:
    1- biblioteche contro il digital divide e il degrado urbano.
    2 – biblioteche di reference
    3 – biblioteche come centri produttivi-creativi.

    La prima ipotesi è quella più o meno giá praticata in Italia, le amministrazioni pubbliche in biblioteca mettono a disposizione pc e bibliotecari per tutti. Da sola la biblioteca non può certo essere determinante nella spietata guerra civile mondiale che si combatte intorno alla proprietà intellettuale (e anche materiale), però è giá qualcosa. Già solo questo motivo dovrebbe essere sufficiente a non abdicare al proprio ruolo pubblico di bibliotecari.

    La seconda è più rara, praticata dalle biblioteche universitarie a favore della propria nicchia di utenti, quindi miope.

    La terza ancora un sogno qui in Italia, non altrove. A New York, al passo coi tempi, stanno investendo 300 milioni di dollari per ristrutturare una (1) biblioteca con l’obiettivo di diventare un centro propulsivo, anche economico, e non solo un mezzo per mettere le pezze alle disuguaglianze.

    C’è qualche amministrazione disposta ad investire anche qui nel costruire comunità? Penso di no, ma non è detta l’ultima parola.

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  5. I am reading this through Google Translate, so I apologize if I missed the nuance of your post. What I red was you asking where are libraries and librarians in these new forms of facilitated knowledge creation…great question. We can spend some time pointing out where librarians are doing this (excuse my focus on the U.S.) like librarians editing Wikipedia, slamming the boards, and Chattanooga’s 4th floor initiative. There are a growing number of Maker Spaces where libraries are hosting making communities. There is the longstanding argument that libraries help create knowledge in nonphysical communities with writers and scholars.

    However, I take your point that many librarians see their role as passive in community creation. Too many librarians believe if an activity is outside the confines of the physical library (or at least off the library’s servers) then they should not play a role. You cite the mission in the Atlas, I would direct you elsewhere in the Atlas that calls for librarians to “go to the conversation.” StackOverflow, Reddit, Wikipedia, WikiCommons, Facebook and others are existing platforms with communities that librarians can learn from and where librarians can make contributions.

    OCLC’s WorldCat, InterLibrary Loan, and massive digital archives show that librarians can achieve great things with the contents of collections, and it is now time to show we can achieve even greater things with connecting our true collections – our communities. You are right to call for librarians to embrace digital communities and see their value there aside from the materials in the physical world.

    In order to do this librarians MUST see themselves as having value outside of maintaining a space and a collection of artifacts. The libraries we build should be with expertise and people, not materials and bricks.

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  6. «Tutti gli spazi di co-creazione della conoscenza che conosco e funzionano siano decisamente non bibliotecari». Suggerisco di provare a ribaltare il punto di vista perché è più utile non dare nulla per scontato se si vogliono risolvere dei problemi. Quindi: quello che chiami “co-creazione” di conoscenza è un ruolo da bibliotecari? Rispondo: sì, se hai deciso di sposare integralmente il punto di vista di Lankes. No, se parti dal presupposto che la biblioteconomia/scienza dell’informazione non ha a che fare con la creazione di conoscenza. Perché dall’età moderna in poi la creazione di conoscenza avviene sempre all’interno di una specifica disciplina che indaga uno specifico ambito (metodo che più recentemente può essere più o meno arricchito dall’interdisciplinarietà). Invece la biblioteconomia/scienza dell’informazione è organizzazione delle informazioni, delle fonti registrate di conoscenza, che pertanto devono pre-esistere, non essere co-create insieme ad altri. Questo secondo punto di vista è diametralmente opposto a Lankes perché si basa su una visione della biblioteconomia/scienza dell’informazione come metadisciplina, niente affatto obsoleta. C’è bisogno anche di questo, ancora bisogno, e non va confuso con le competenze della disciplina X o Y o Z. Sennò i bibliotecari dovrebbero essere o specialisti della disciplina X, o Y, o Z oppure dei tuttologi. Nel primo caso spariscono di sicuro, diventando, come negli esempi che citi di piattaforme di domanda/risposta, degli esperti di X, di Y o di Z che si prestano anche a dare aiuto online. Nel secondo caso, la tuttologia, arriviamo alla negazione della conoscenza, al sapere tutto e nulla. Domanda: è opportuno, utile, non distinguere tra ruoli diversi? Mestieri diversi che rispondono a bisogni diversi? Naturalmente va benissimo che lo specialista si presti a dare risposte specialistiche. Ma è un altro mestiere. Il bibliotecario non può mettersi al posto di quello specialista perché allora dovrebbe essere uno specialista e allora farebbe un altro mestiere. Oppure sarebbe un improvvisatore, e allora certo non se ne ha bisogno per cui sarebbe meglio che sparisca. Ma chi ha detto che le domande sono solo più domande da specialisti? Forse parti troppo dal tuo punto di vista personale: cioè le domande che interessano a te e che trovano risposte solo nello specialista. Legittimo, altroché, ma questo è un caso. Una visione alternativa è quella della biblioteconomia/scienza dell’informazione come meta-disciplina proposta da Marcia Bates: per es. qui: “The Invisible Substrate of Information Science.” Journal of the American Society for Information Science 50, #12 (1999): 1043-1050, http://pages.gseis.ucla.edu/faculty/bates/substrate.html
    e qui:
    “Defining the information disciplines in encyclopedia development” Information Research, 12(4) paper colis29. http://InformationR.net/ir/12-4/colis/colis29.html
    Utilissimo l’esempio che fa Bates del medico che se pretende di fare anche l’indicizzatore di articoli scientifici per l’Index Medicus lo fa male. Essere esperti in una disciplina non significa saper organizzare l’informazione. Altro esempio specifico: un conto è saper fare una ricerca nella banca dati biomedica Medline, un conto è sapere come è fatta, o anche lavorarci. Un altro conto è rispondere a un quesito che ha un obiettivo pratico, che cioè consiste nella richiesta di una consulenza medica. La biblioteconomia/scienza dell’informazione è una metadisciplina che non pretende certo di dare risposte a tutti i problemi universali. Però se i bibliotecari non sono i primi a crederci allora quasi sicuramente non sapranno neppure fare advocacy del proprio mestiere in quanto professione specifica, distinta da altre. Il punto di partenza è quello che conta.

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    1. Rispondo brevemente (magari più in là ci faccio pure un’altro post), per dire che le tue critiche secondo me sono fondate ma non commettere un errore anche tu: Lankes (e in parte anche io) parle di bibliotecario come facilitatore di conoscenza. Fare il facilitatore, come l’organizzatore, è una meta-disciplina. Si può argomentare che l’organizzazione di informazioni è una forma di facilitazione (e io lo credo). Il punto di Lankes (e anche il mio) è però non farsi incastrare/incasellare nella forma del bibliotecario come organizzatore: un docuverso perfettamente organizzato sarebbe completamente inutile senza i suoi utenti. Questo per me è fondamentale. I libri sono fatti per essere usati (Ranganathan, primo comandamento). Se il bibliotecario legge questa frase e si ferma alla parola libro per me sbaglia. Lankes (io credo) sviluppa la teoria a partire da una situazione reale, e secondo me è un modo “logico” (passami il paradosso) di fare le cose, perchè gli esseri umani non sono logici e neanche il mondo, e se a nostra professione deve avere un senso deve essere una professione che è utile, ha un impatto, serve a qualcuno. Organizzare la documentazione per organizzare la documentazione è una forma di autismo, e il suo impatto e la sua utilità vanno testati e non dati per scontati. A me, personalmente e professionalmente, interessano l’impatto e l’utilità. E’ uno dei motivi per cui ripeto a pappagallo ai bibliotecari che ha senso che facilitino la conoscenza nella più grossa comunità al mondo di co-creazione di conoscenza (cioè Wikipedia).

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      1. “se la nostra professione deve avere un senso deve essere una professione che è utile, ha un impatto, serve a qualcuno.” Certamente! Se è utile ed ha un impatto forse è facile anche trovare qualcuno disposto a pagare dei bibliotecari…cosa che sta diventando sempre più rara .

        Un professionista è colui che incassa dei soldi a fronte di una prestazione a prescindere di chi è il committente (l’Amministrazione pubblica, l’esercito impegnato a esportare la democrazia all’estero, un’azienda privata di armi chimiche, Amnesty International o per assurdo anche la camorra).
        Provate a farvi pagare da qualcuno per fornire ad esempio dei servizi di indicizzazione, come dice Minsenti, e sarete dei bravi bibliotecari professionisti. Se lo farete per i medici avrete contribuito alla creazione di conoscenza medica, se lo farete insieme ai militari avrete costruito conoscenza bellica e se lo farete insieme alla camorra… conoscenza criminale.

        Non capisco affatto dov’è il confine tra organizzare/trasferire conoscenza e crearla.
        Il problema gravissimo invece è che ci sono sempre meno committenti (pubblici o privati poco importa) disposti a pagare dei bibliotecari professionisti e per risolverlo non basta invocare i principi della biblioteconomia e della scienza dell’informazione, da qualunque parte essi provengano: bisogna stare sul pezzo secondo me, dentro SE, nei makerspace come dice Lankes, nelle biblioteche e nelle piazze …a battersi per la democrazia che è la vera assente nello scenario attuale.

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      2. Certo l’organizzazione della conoscenza, come tutto il lavoro che fa il bibliotecario, va testata, deve essere a misura di utente. Nessuno pensa il contrario. Ma questo lo diceva già Ranganathan negli anni ’30 del ‘900, come sai anche tu, e d è un principio che si ritrova declinato in qualsiasi manuale in lingua inglese di management dei servizi bibliotecari, soprattuto dagli anni ’90 in poi. Se è così, allora che bisogno c’è di continuare con questa che mi pare una notevole semplificazione tutta italiana che consiste nell’attribuire a Lankes la nascita della preoccupazione per l’utente e la necessità di non rendere autoreferenziale il lavoro del bibliotecario? Che non ce ne sia bisogno (di attribuire la cosa a Lankes) è anche la conclusione di Angela Munari, Presidente AIB Veneto, nel suo intervento all’incontro di Treviso del novembre scorso: http://angelamunari.tumblr.com/post/102352211580/nuove-mappe Quindi io proporrei come fa Angela di smetterla di identificare Lankes come l’unico paladino della biblioteca a misura di utente perché è una pretesa che non risponde al vero, considerata tutta la tradizione della biblioteconomia ‘900ntesca che sarebbe davvero irrispettoso dimenticare (e a che pro?). La storia non si nega. Se qualche pratica non è così, si indica il caso concreto. Ma con Lankes le cose non finiscono qui perché la sua originalità non sta certo nel principio dellla biblioteca a misura dell’utente, una idea che non è sua originale, ma nel fatto che radicalizza le cose e fa un passo indebito: cioè “sembra” (dico “sembra” perché non è mai chiaro del tutto) attribuire al bibliotecario una responsabilità nel processo di metabolizzazione dei contenuti informativi e nello sviluppo di conoscenza autonoma. Ma questo è un processo molto ampio e complesso in cui cooperano diversi altri attori, a iniziare da insegnanti di verso ordine e grado, per continuare ed accrescersi grazie a tante altre cose, nuovi studi, anche condotti autonomamente, e ovviamente scambi e discussioni. Il punto è che voler trasformare il bibliotecario in figura attiva di questo processo è una straordinaria forzatura che non è giustificabile né nella teoria né tanto meno nella pratica perché il bibliotecario NON è un insegnante, non è una persona che trasmette contenuti e fa da guida nell’istruzione di una persona. Naturalmente tu sottolinei un principio giusto a livello generale: che la lettura passiva, qualsiasi fruizione passiva, è inutile. Ma questo non significa che la responsabilità della formazione intellettuale indispensabile per arrivare a sviluppare un tipo di fruizione attiva sia compito e responsabilità del bibliotecario. Lankes finisce per sovrapporre professioni diverse perché non propone un quadro completo delle varie professioni e delle loro interazioni al fine di definire come, in misura diversa e con responsabilità diverse, possano concorrere all’intero processo di creazione della conoscenza, trasmissione, disseminazione, organizzazione. Senza questo quadro dei diversi ruoli, Lankes “sembra” trasferire al bibliotecario la responsabilità dell’intero processo: una cosa abnorme, impossibile sul piano pratico e pericolosa dal punto di vista etico perché se fosse così un solo ruolo controllerebbe sia l’accesso alla conoscenza sia ai processi che la fanno nascere. È una posizione che sconfina in una pericolosa visione distopica. Per contro quello proposto da Marcia Bates è un quadro complessivo che tiene conto di diversi processi e attori. È un quadro concreto, che inoltre fa salvi dei principi etici perché non assegna una pericolosa supremazia a nessuno. Ma soprattutto è un quadro utilizzabile per un discorso autenticamente professionale, perché è specifico così come dall’età moderna in poi qualsiasi autentica professione è specifica e va distinta dalle altre.

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      3. Ho letto l’intervento di Angela Munari suggerito di Minsenti. Faccio solo un appunto per tirare acqua al mio mulino. Angela Munari sottolinea che “Lo smarrimento di Conrad Gesner non era inferiore al nostro e nemmeno quello di Dewey o di Ranganathan.”…di fronte al diluvio informativo (suppongo). Ecco, io non credo affatto che Gesner fosse smarrito perché riformista zwingliano forse interessava di più imporre l’egemonia della Riforma in un’Europa devastata dalle guerre di religione. Condivisibile o meno, i riformisti si facevano più garanti della lettura e dei libri, di quanto riuscissero a fare i controriformisti. (E’ straordinario sapere che la Biblioteca Universale venne pubblicata nel 1545, anno in cui parti il Concilio di Trento con la sequela di girarrosti che ne seguirono). Gesner non era solo un bibliotecario partecipativo del suo tempo, ma anche partigiano.
        Non dobbiamo avere paura per niente di mischiarci e sconfinare in altri campi. (..pensate a quanto era neutrale Naudé, oppure Dewey….di Ranganathan invece non so nulla).

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      4. È stato già scritto tutto qui, 80 anni fa: Ranganathan, “The Five laws of library science” (London, Goldstone, 1931).
        Trad. it.: “Le cinque leggi della biblioteconomia” (Firenze : Le Lettere, 2010).
        Full text ad accesso gratuito della edizione originale inglese digitalizzata da Google: http://babel.hathitrust.org/cgi/pt?id=uc1.$b99721;view=1up;seq=13
        Fondamentale in questo testo la metafora del campo elettromagnetico usata da Ranganathan per spiegare l’interdipendenza, le relazioni dinamiche e reciproche tra le 3 entità che compongono il servizio bibliotecario: il bibliotecario, le risorse informative, gli utenti. Ma per l’appunto: gli elementi del campo magnetico sono 3, interdipendenti, ed è solo grazie alla loro INTERDIPENDENZA che si realizza l’EQUILIBRIO del servizio bibliotecario per l’utente. Per contro, dire come fa Lankes, che il servizio bibliotecario è là dove c’è un bibliotecario, anche se è una stanza vuota, priva di risorse informative, significa distruggere l’equilibro garantito dal campo elettromagnetico, significa arrivare a sostenere che prima di tutto viene la funzione di mediazione anche in assenza di risorse informative, in sostanza significa attribuire al bibliotecario la funzione di memoria e trasmissione del sapere e quindi consegnargli anche la possibilità della manipolazione del sapere, visto che in assenza di risorse informative verrebbe meno la verificabilità di ciò che dice. Questo non è continuare e rinnovare Ranganathan.

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      5. Premesso (ancora) che io non sono d’accordo con tutto quello che Lankes dice, accolgo la sua provocazione e penso che sia limitato pensare:

        • che i bibliotecari siano gli unici che sappiano organizzare informazione
        • che l’informazione sia solo in forma di libro o articolo. Per es. una cosa che sto facendo su Academia.stackexchange è aiutare nella creazione e utilizzo di tag. E’ triviale, ma aiutare la comunità nell’usare meglio questi strumenti secondo me è un lavoro da bibliotecario (di cui hanno bisogno anche Wikidata, Wikipedia, Wikisource)
        • siamo sicuri al 100% che il bibliotecario non c’entri nulla con tutto ciò che è apprendimento che non sia su carta o su un simulacro di libro?
        • Nessuno dice che Lankes sia Il Primo Vero Bibliotecario Che Pensa Agli Utenti, nessuno credo l’abbia mai detto, e quindi secondo me è una critica che può anche si può smettere di muovere a chi è d’accordo con (parte del) suo pensiero.

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      6. Un’altra critica che non accetto (nel senso, che secondo me è scorretta) è il credere che si voglia rivoluzionare il lavoro dell’intero personale bibliotecario dall’oggi al domani, lasciando le biblioteche vuote e i cataloghi non aggiornati… Io credo che ci sia bisogno di una spinta di innovazione non banale nel mondo bibliotecario, e che la presenza di bibliotecari in comunità come quelle che sto provando a descrivere sarebbe una cosa buona e giusta. Non dico mai che lo debbano fare tutti, tutto il tempo, ma qualcuno si, e secondo me neanche nel tempo libero e per carità di Dio. Secondo me la presenza in queste comunità è un lavoro da bibliotecario.

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  7. Sono daccordo sullo sperimentare, ma non sottovaluterei che in Italia i bibliotecari fanno fatica a iscriversi e partecipare in un’associazione professionale, figuriamoci se riescono a costruire una comunità online. So di bibliotecari “professionisti” che trovano ogni scusa pur di non partecipare alla vita associativa, perché dovrebbero sbattersi per essere disponibili su SE? Per gli utenti? per l’advocacy?!!! Ma scherziamo? Scusate la nota dolente

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    1. La vita associativa secondo me è molto diversa da una vita online. Non dimentichiamo che su Internet sei uno pseudonimo (ti riveli solo se vuoi) ed è tutto volontario. Se vuoi partecipare lo fai, se non vuoi no. Le associazioni di categoria secondo me sono percepite diversamente (io per es. non mi sono mai iscritto ad AIB, un po’ perchè non m sento un vero bibliotecario, un po’ perchè le cose che mi interessa fare con loro le faccio lato Wikimedia).

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  8. Ho l’impressione che questa discussione rischi di incartarsi su 2 difficoltà:
    1) per leggere e interpretare qualcuno, soprattutto un teorico X che propone una visione rivoluzionaria, occorre conoscere tutto il dibattito precedente. Altrimenti non è possibile né capire quanto e come il teorico X sia effettivamente diverso e in cosa da chi lo ha preceduto, né capire se quello che dice ha senso alla luce di quei fondamenti teorici che sono condivisi largamente oppure se al contrario questi fondamenti teorici andrebbero consegnati alla storia (museale) perché il teorico X sarebbe capace in maniera convincente di dimostrarne l’obsolescenza (da sottolineare: “in maniera convincente” che richiede necessariamente un’attenta discussione dei fondamenti precedenti). Altrimenti il rischio è quello di seguirlo e buttare l’acqua e il bambino.

    2) ma soprattutto il problema più grosso che vedo è la sovrapposizione tra due discorsi diversi che crea ambiguità. Visti gli ultimi commenti di Andrea Zanni e l’impostazione generale che dà al discorso che porta avanti da tempo, a me sembra che il problema che gli sta a cuore abbia poco a che fare con l’obiettivo di Lankes di ridefinire biblioteconomia, biblioteche e bibliotecari. Mi pare semmai che il tema di questo post sia un caso specifico di un argomento più generale che potrebbe essere ridefinito in questo modo: in quali contesti non bibliotecari possono essere riutilizzate con profitto le competenze bibliotecarie, perlomeno alcune. Un tema interessante. Ma sinceramente mi pare molto, molto diverso dalla rivoluzione della professione bibliotecaria a cui pretende di dare fondamento Lankes con l’Atlas (che comunque a mio parere non è neppure un vero libro di teoria ma piuttosto un “manifesto” costruito su ipotesi basate su visioni personali espresse per mezzo di proposizioni apodittiche martellate in continuazione. La teoria è un’altra cosa.).
    Per tornare al discorso di Andrea, forse sarebbe più chiaro se fosse espresso manifestando le sue distanze sia da Lankes sia dall’obiettivo generale di L. (sempre se ho capito bene, naturalmente).
    In conclusione, a me non sembra che il futuro delle biblioteche e quanto Lankes abbia da dire in proposito, sia il vero tema di fondo di questo post. Se lo si dicesse apertamente secondo me sarebbe più facile impedire che la discussione si incarti e nascano equivoci.

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  9. Trovo molto interessante il post e offro il mio cent di contributo alla discussione. A me pare che la distinzione tra creazione e facilitazione di conoscenza abbia un’importanza decisiva oggi. In estrema sintesi, la rete “disrupt” la sintassi dell’accesso alla conoscenza, dell’organizzazione dei contenuti, ecc. e le comunità (quella dei bibliotecari ma in realtà tutte le comunità che hanno a che fare con l’accesso alla conoscenza, gli insegnanti delle scuole, i docenti universitari, ecc.) vivono in un periodo di ridefinizione. Non so se siamo in un periodo rivoluzionario (nel senso di Kuhn), forse sì, ma è certo un processo di disruption molto profondo. Da questo punto di vista, la biblioteconomia non può che co-evolvere con questi cambiamenti (così come accade ad altre discipline accademiche, cito due esempi “forti”: digital humanities e informatica-genetica…). A me pare che – al di là della teoria e della tradizione biblioteconomica, al di là dei paradigmi (di nuovo nel senso di Kuhn) – molti avvertano la necessità di esplorare modalità di approccio a problemi biblioteconomici tradizionali in modi radicalmente nuovi e paradigmaticamente diversi rispetto al passato. Qui si lavora in termini di analogia e di metafore: StackExchange (come prototipo) e il reference bibliotecario tradizionale. Già nel solo accostare le due cose mi pare emerga con tutta evidenza una relazione puntuale e l’indicazione di un intero campo di cose che oggi i bibliotecari non fanno mentre il mondo procede verso qualcosa che sta nell’area semantica del concetto di reference anche se il lessico e le persone non corrispondono più rispettivamente alla biblioteconomia e ai bibliotecari. “Se i bibliotecari non si impegneranno seriamente ad evolversi e/o rivoluzionarsi, io la vedo dura”. Sottoscrivo :)

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  10. Io continuo a non capire cosa centrino i bibliotecari con questo discorso che riguarda comunità di esperti che danno risposte su certe piattaforme di domanda e risposta (Q&A).
    Mi pare si pongano problemi che non hanno soluzione perché sono basati su una serie di cose date per scontate e che invece non sono affatto scontate:
    1) si dà per scontato che tra domande che potremmo definire adatte a un servizio bibliotecario di reference e domande a cui rispondono esperti di un certo ramo non ci sia differenza, e partendo di qui (assioma scontato) si pone la domanda sul perché i bibliotecari non compaiono tra questi “esperti” che volenterosamente si mettono a disposizione. Si sostiene che i bibliotecari hanno sicuramente delle cose da mettere a disposizione ma non si precisa affatto quali. Lo si dà per scontato. E siccome non si fanno vedere online, non sono dove tutti (?) vanno, si conclude che i bibliotecari si autoescludono e che quindi nel nuovo mondo “sarà dura per loro”. Ma prima di arrivare a queste conclusioni pessimistiche siamo sicuri che il ragionamento sia condivisibile e fili tutto alla perfezione? Prima di fare i pessimisti non sarebbe corretto sviscerare bene le cose? Sicuramente nel mondo ci sono sempre un sacco di ragioni per essere pessimisti, ma non è meglio esserlo su situazioni e per ragioni ben argomentate e descritte? Ha senso essere pessimisti sulla rilevanza dei bibliotecari per la società prendendo come esempio dei siti web di Q&A? La biblioteca è molto di più che un servizio di Q&A. Inoltre non c’è neppure equivalenza tra il parere dato online, in assenza di strumenti adeguati per verificarne la validità, e i supporti di conoscenza registrata messi a disposizione dalle biblioteche perché semmai le biblioteche ci tengono al fatto di mettere a disposizione conoscenza certificata.
    2) a questo punto del discorso (dove fin qui tutto è stato dato per scontato) vediamo che viene introdotto Lankes: qui si fa un passo in più nella scontatezza del ragionamento dando per scontato che sia “vera” la definizione lankesiana del ruolo di bibliotecario come facilitatore nel processo di creazione della conoscenza e si conclude: “perché si scrivono queste cose, se poi nella realtà i bibliotecari non li vediamo impegnati in questi processi?” Che è come dire: “sono solo belle parole… ma poi i bibliotecari non si fanno vedere sui siti di Q&A!” E chi ha detto che la definizione di Lankes è sensata, adeguata al lavoro dei bibliotecari? Anzi: non dovrebbe essere proprio una riflessione su quello che di concreto si fa nelle biblioteche a suggerire il sano dubbio (i dubbi sono sempre “sani”, le cose date per scontate non lo sono mai) che quella di Lankes non è una definizione corretta? Quando mai i bibliotecari hanno “collaborato alla creazione di conoscenza”? E del resto l’espressione “creazione di conoscenza” non è forse una espressione poco utile, perché troppo generica, superficiale, visto che già solo a rifletterci un attimo si capisce bene che è una espressione ombrello sotto cui possiamo porre tante diverse attività, tra cui la riflessione teorica, l’indagine di casi specifici (quello che fanno la storia, la filologia ecc.), la ricerca di laboratorio: tutte attività che si fanno nelle Università, ma NON sono attività dei bibliotecari, perché sono il compito di quelli che chiamiamo ricercatori. E se continuiamo a riflettere non ci accorgiamo che nella nostra civiltà occidentale attorno a quella che chiamiamo “conoscenza” non c’è solo la “creazione di nuova conoscenza” ma anche altri diversi e fondamentali processi, tra cui per lo meno questi: trasmissione tramite insegnamento o tramite divulgazione (vedi enciclopedie o Piero Angela), pubblicazione; acquisizione, gestione e conservazione delle registrazioni della conoscenza. E i bibliotecari non li troviamo solo nell’ultimo gruppo di queste attività, perché le altre attività sono compito di altre professioni ben precise, che esistono da molto tempo e che si formano e seguono percorsi professionali specifici che NON sono quelli dei bibliotecari. Insomma: il dubbio (sano) che viene è che forse se si parla di conoscenza bisogna parlare di processi distinti, di ruoli distinti e quindi di professioni distinte, che insieme concorrono a fare qualcosa, creazione di conoscenza, trasmissione, accesso, ma ognuna delle professioni coinvolte fa solo una cosa e quello che fa il bibliotecario è occuparsi di selezionare, immagazzinare gestire le registrazioni di conoscenze. E quindi che cosa c’entra con il discorso di Lankes e che cosa c’entra con la pessimistica previsione sulla assenza del bibliotecario dalle piattaforme online di Q&A?
    3) infine un’altra grossa cosa data per scontata è che il bibliotecario conosca personalmente e direttamente il patrimonio di conoscenze a cui ha accesso sotto forma di libri e altre risorse informative e che quindi potrebbe affacciarsi sulle piattaforme di Q&A come gli “esperti” di X o Y. Mentre non è affatto così perché il bibliotecario non è quel tipo di esperto della disciplina X o Y dato che NON è uno il cui lavoro consiste nel “leggere i libri” della biblioteca, studiarli, assimilarli e diventare come l’esperto.
    Una delle più perfette risposte a questo equivoco è la rappresentazione del bibliotecario che dà Musil nel cap. 100 dell’Uomo senza qualità. Musil se ne intendeva perché lui stesso era stato bibliotecario nella biblioteca del Politecnico di Vienna. In sintesi, Musil mette in bocca al suo bibliotecario queste parole:
    «È il segreto di tutti i bravi bibliotecari non leggere mai, dei libri loro affidati, nient’altro che il titolo e l’indice. “Se uno si lascia prendere dal contenuto, come bibliotecario è finito!” mi ha spiegato. “Non acquisterà mai una visione d’insieme!”» (trad. di A. Vigliani, Meridiani Mondadori. vol. 1°).
    Questa “visione d’insieme” non è forse la capacità intellettuale di tessere relazioni tra le opere, di vedere l’insieme, invece che i dettagli, e quindi di organizzare”? E non è forse un altro modo per indicare il lavoro concettuale legato ai Linked Open Data? E di nuovo: questo che cosa c’entra con gli esperti dell’ambito X o Y che partecipano alle piattaforme di Q&A?

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    1. Questo è un metacommento.
      Pierfranco, ti chiedo due cose: la prima è di essere più conciso. Se vuoi discutere, bastano meno parole: sono convinto che il tuo essere ossessionato dai dettagli non chiarisca ma obnubili il tuo pensiero. Secondo: *non fissarti* sulle cose. Ognuno di noi può avere le proprie opinioni, ma non fare per favore l’endless contrarian, perchè non fa onore alla tua intelligenza.
      Aggiungo inoltre che io non ritengo che tu dica cose scorrette, ma ritengo che il tuo continuare a ricorsivamente spaccare il capello prima in quarti, poi in sedicesimi, poi in trentaduesimi per me non aiuta la discussione. Io non pretendo che tu sia d’accordo con quello che dico, io non pretendo di aver scritto il vangelo. Non sono uno storico della biblioteconomia, non sono un accademico, non sono neanche un bibliotecario.
      I ricorsi all’autorità secondo me sono interessanti finchè concreti, basati sul reale, incarnati in un’ambiente. Se Ranganathan oggi fosse obsoleto lo butteremmo via. Secondo me (e tanti altri più intelligenti di me) non lo è.
      Alcune concetti del pensiero di Lankes mi piacciono. La mia percezione (quindi, affermazione opinabile) è che tutti i tuoi sillogismi siano perfetti ma non facciano altro che limitare e dimezzare di volta in volta il ruolo del bibliotecario, che prima è un’organizzatore dell’informazione, poi solo di informazione prevalentemente certificata (ma da chi?), poi un selezionatore (ma se hai appena detto che non deve consocere il contenuto, come fa a selezionare? con quali competenze? sui metadati del colophon?) poi c’è il reference che però è diverso dai siti di Q&A (io non sono un’esperto di reference, spiegami).
      Sta di fatto che (disclaimer: questa è un’iperbole) si finisce a fare gli ubercommessi, gli ubermagazzinieri di libri in biblioteca.
      La mia impressione (opinione! non è un fatto, non è una tesi di dottorato, ma è basato su quello che leggo, che vedo, che discuto con altri) è che i bibliotecari, in quanto esperti di informazione, dovrebbero stare in quei posti dove l’informazione si fa, perchè l’informazione, la conoscenza autorevole non si fa più solo nei libri, negli articoli, nelle riviste. In questo probabilmente differiamo, ma per me questa è una verità importante: si è passati dall’autorità all’autorevolezza, gli esperti sono esperti anche senza PhD, l’intelligenza collettiva di certi progetti e di certi singoli casi opera co-creazione, costruzione, manutenzione, organizzazione e selezione dell’informazione e della conoscenza. Se tu non sei d’accordo, secondo me sbagli. I bibliotecari (mondiali!) in internet stanno perdendo da vent’anni la partita delle biblioteche digitali, della preservazione a lungo termine, della selezione, dell’organizzazione dell’informazione. In italia le biblioteche digitali di testi in italiano sono tutte volontarie (a parte qualche progetto nato morto).
      I Linked Open Data sono roba da informatici (come tutto il resto), perchè i biblitecari stanno arrivando ben ultimi. I metadati sono roba da informatici. Gli autorithy control sono frequentati solo dagli addetti ai lavori. I cataloghi (italiani) sono tutti silos autistici.
      La mia (banalissima) posizione è che il bibliotecario, come esperto di informazione ed erede di una tradizione secolare sulla organizzazione dell’informazione, sulla “visione d’insieme”, (nella definizione che dai tu) in tutto questo dovrebbe stare *davanti*, non *dietro*.
      E se essere bibliotecario è diverso da quello che sto dicendo, semplicemente mi chiamerò in altro modo.
      (disclaimer: questo post ha fatto uso di argomenti retorici, di iperboli, di manipolazione emozionale del lettore per poter comunicare meglio la (le) tesi di fondo).

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    2. Apprezzo davvero la tenacia e chiarezza con cui Minsenti spiega il rapporto tra il bibliotecario e la documentazione. Il problema è che non riesce ad uscire dal cerchio magico dell’autoreferenzialità perché non spiega mai, né lui né i suoi epigoni, come mai per docenti, ricercatori, studenti, aziende, professionisti, laboratori, cittadini, cioè tutti, i bibliotecari non valgono niente (o quasi).
      Sono troppo stupidi gli altri? Si sono fatti fregare dalla grande truffa del web 2.0? O sono i bibliotecari che hanno rinunciato ad avere un ruolo professionale e civile per dedicarsi all’interpretazione del mondo documentale in sé e per sé?

      ps: “gli elementi del campo magnetico sono 3, interdipendenti, ed è solo grazie alla loro INTERDIPENDENZA che si realizza l’EQUILIBRIO del servizio bibliotecario per l’utente”. Appunto se anche uno degli elementi manca o è inconsistente la validità scientifica (e professionale) del ragionamento va a farsi benedire. Amen

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  11. Il cuore autentico della questione secondo me emerge dal commento di Laura Testoni quando scrive: «La tua riflessione mi serve perche’ e’ da un po che penso cosa vuol dire oggi “fare reference”». Ecco: questo è il nodo su cui vale la pena riflettere. Laura dice di non avere risposte, almeno al momento. Quello che non mi va nella tua posizione è che tu non poni la questione centrale e gli interrogativi specifici con cui potrebbe essere formulata, come per es.: che cosa vuol dire oggi fare reference in biblioteca? come farlo? come rinnovarlo? cosa ci dicono i dati sulle domande che vengono poste e quali sono le risposte? i dati sulla sodisfazione degli utenti? la loro percezione? No: tu parti da un esempio di piattaforma e ti chiedi come mai lì non ci sono i bibliotecari. Per te devono esserci, ne sei arcisicuro, e se non ci sono non sei tu che sbagli, sono loro, i bibliotecari che non hanno capito. Di lì ipotesi di declino e sparizione…
    Come seleziona i libri un bibliotecario se non è esperto dei contenuti? Qualsiasi manuale di biblioteconomia lo spiega: in generale si tratta di usare diversi strumenti come bibliografie, recensioni, visionare i libri (per questo ci sono anche specifiche formule di fornitura su abbonamento), ma anche raccogliere pareri di esperti, desiderata dei lettori. Dipende poi anche dal tipo di biblioteca. Comunque a livello di metodo saper selezione non significa leggere e studiare i libri per poterli conoscere a fondo e magari poi concorrere con esperti del ramo nel dare risposte sulle piattaforme di Q&A.

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    1. No: tu parti da un esempio di piattaforma e ti chiedi come mai lì non ci sono i bibliotecari. Per te devono esserci, ne sei arcisicuro, e se non ci sono non sei tu che sbagli, sono loro, i bibliotecari che non hanno capito. Di lì ipotesi di declino e sparizione…

      L’ipotesi di declino e sparizione vengono anche da altro, ma dò per buono il tuo riassunto. Io penso che i bibliotecari debbano esserci, in quelle comunità, e più in generale nel web (nelle biblioteche digitali, nei posti dove si produce/fa informazione). Io penso che l’idea che un bibliotecario, nel 2015, sia legato al concetto di libro e documento cartaceo sia limitata e sbagliata. Penso che il libro cartaceo (per quanto meraviglioso) sia solo uno dei supporti dell’informazione. Penso che a 25 anni dalla nascita del web il mondo bibliotecario abbia dimostrato di essere rimasto indietro, e che adesso l’organizzazione dell’informazione la fanno gli informatici, coi pro e i contro della situazione. In questo siamo sicuramente su posizioni diverse. Penso anche però che sia stupido lamentarsi del ruolo marginale dei bibliotecari nella società (e nell’economia) se non ci si rende conto del fatto che stare fermi mentre tutto cambia intorno a te è fra le dirette cause (che sono plurime) della marginalità e dell’oblio.

      Il “cuore autentico della questione”, come lo definisci, è tale solo se tu pari dal ruolo attuale del bibliotecario e fai
      bibliotecario > reference > come migliorare il reference.

      Per me la questione ha un punto di vista diverso, che non è il bibliotecario.
      Io vedo una comunità di esperti che fa un Q&A. Vedo che queste comunità hanno successo, producono informazione di valore (io, in quanto lettore ed utente, la reputo di valore, per cui bene così), hanno successo (ci sono i numeri a dirlo) per cui vorrà dire che, offrendo solo domande e risposte, a qualcuno interesserà, questa roba. Per cui assumo che rispondono ad un bisogno informativo. Da qui mi chiedo: dove sono i bibliotecari? I “bisogni informativi non sono (anche) affari loro? Secondo me sì, da tutto quello che io so sulle biblioteche. A mio parere, chi legge “i libri sono fatti per essere usati” e si ferma solo alla parola libri (e non allo scopo – la conoscenza, l’apprendimento) sbaglia a leggere Ranganathan. A mio parere quella frase lì parla di bisogni informativi.

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  12. Io, in grandioso ritardo ma Andrea sa perché :-) posso aggiungere poco a una riflessione che di fatto si concentra su un’idea del reference molto più vicina a quanto fanno le biblioteche accademiche che le pubbliche. Quando però Andrea scrive che “non ancora” tutti usano siti di Q&A specialistici ma che in qualche modo è solo una questione di tempo, anch’io sono molto dubbiosa.

    Fra 5-10 anni in Italia potremmo avere persone persino più ignoranti e meno autonomamente digitali di oggi (fine dei servizi pubblici, povertà in aumento ecc.). Paradossalmente, per loro è Wikipedia quella che potrebbe essere scritta in modo troppo difficile (me lo chiedevo l’altro giorno: devo scrivere [[Walter Benjamin]] o il filosofo [[Walter Benjamin]]? Quanto si può dare per scontato?). Il punto semplice semplice è che nelle biblioteche pubbliche il reference come inteso nei manuali non esiste più, perché non ne esiste più la domanda: quello che si fa col pubblico è poco più che usare la tastiera al posto di persone o vecchie, o insicure, o escluse da un’alfabetizzazione piena anche quando sono lettori incalliti. Chi sa fare fa da solo, tutti gli altri vanno assistiti, ma nel senso dell’assistenzialismo sociale (e che questo significhi che le biblioteche sono centri che assicurano la tenuta della democrazia e del tessuto sociale, l’ho già detto altre volte, per me è una merdosa mistificazione).

    Una cosa che forse potremmo cogliere maggiormente delle sollecitazioni di Lankes, è l’idea che neppure la comunità che serviamo/con cui collaboriamo è un oggetto definito a priori. Per le biblioteche pubbliche porsi questa domanda potrebbe essere uno strumento potente di auto-analisi. Qual è il nostro scopo? Dare agli studenti i servizi di base che le universitarie non danno? Essere il “safe place” nel quartiere peggiore della città? Intrattenere gli anziani? Le risposte sono diverse e implicano lavorare con comunità diverse. Indagare questo tabu del servizio generalista, del “servizio per tutti” (non è mai stato tale) sarebbe interessante e forse anche utile per guardare in fronte quella divaricazione spaventosa fra chi sa sempre più e chi sempre meno.

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    1. 3 ottimi argomenti per riportare l’attenzione sulla realtà, rimettere i piedi per terra:
      1) c’è bisogno oggi e forse ancora di più in futuro di servizi in presenza per rispondere ai bisogni creati dai divari: ma non solo il troppo enfatizzato “digital divide” perché prima di tutto vengono i divari culturali e cognitivi. Come nota anche Marino Sinibaldi nel suo ultimo libro, sono questi il vero problema;
      2) se Andrea vede nei bibliotecari il pericolo di “autismo”, che io definirei semmai come autoreferenzialità, pensare solo dal proprio punto di vista, non soddisfare i bisogni degli utenti, allora che dire del pericolo di ‘”autismo” nei geek: coloro che pensano che tutti vadano online, che tutti conoscano certe piattaforme e siano interessate a usarle? Il pericolo di autismo è molto più forte nel geek isolato che sta davanti a uno schermo, cerca altri geeks come lui e pensa che la strada dell’evoluzione dell’umanità sia quella;
      3) non esiste una cosa chiamata “comunità” perché viviamo in società frantumate in nicchie. L’idea lankesiana che il bibliotecario debba farsi dettare la propria mission, fin anche i propri più concreti obiettivi, da questa presunta “comunità” si rivela un’astrazione che si scontra contro una dimensione concreta dove non esiste “una” comunità, ma molte. Ed è questa pluralità che mette in crisi l’idea lankesiana della comunità che ispira il bibliotecario. Esempio pratico: quando nei primi mesi del 2014 nelle biblioteche pubbliche francesi gruppi di attivisti legati al movimento “La manif pour tous” (analogo sotto certi aspetti delle “Sentinelle” italiane) facevano dei raid nelle biblioteche pubbliche francesi per verificare se avevano libri che parlavano di omogenitorialità e minacciavano i bibliotecari pretendendo che venissero eliminati, ecco un esempio non solo di comunità diverse, ma conflittuali. Allora come gestisce questi casi il bibliotecario? Non certo facendosi dettare la linea da una di queste comunità.

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      1. Aggiungo una parentesi. C’è anche da dire che lo stesso concetto di “bibliotecario” è stratificato in modi che la letteratura e il dibattito spesso trascurano. Tutti la letteratura parla sempre di “le biblioteche” e “i bibliotecari” quando sappiamo benissimo che il lavoro delle biblioteche comprende ruoli che vanno dall’inserviente che si occupa dello smistamento dei prestiti al dirigente. Il “librarian” che esce dalle scuole americane ad es. è un manager, si veda non a caso il profilo del bibliotecario dell’anno di Library Journal (http://lj.libraryjournal.com/2015/01/awards/siobhan-a-reardon-ljs-2015-librarian-of-the-year/) che è una figura prettamente manageriale. Quindi ogni affermazione “i bibliotecari devono / non devono fare questo e quello” include questa irrealistica semplificazione.

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  13. Credo anche io fortemente che il digital/information/”cognitive” divide sia una cosa importante, non bisogna assolutamente negarlo. Ci terrei a risottolineare il fatto che questo era un post (quindi, non una tesi di dottorato) che rifletteva a voce alta su alcune comunità e progetti che stanno facendo cose. In un certo senso, come ho già detto più volte (non in questo blog però) è anche una critica a Lankes stesso: come fai a parlare di comunità di co-creazione della conoscenza ignorando progetti come Wikipedia, Quora, StackExchange, ecc.?
    Anche io credo fortissimamente nell’idea che la comunità non sia un oggetto definito a priori, che ci sono diverse comunità contemporaneamente, che le comunità cambiano, che una persona singola faccia parte comunique di comunità diverse (ho scritto il post successivo della complessità proprio per anticipare idee come questa). Gli esempi che mi fai, Pierfranco, mi trovano ovviamente d’accordo: il punto 1 è prezioso, nessuno dice che bisogni evitare di farlo.
    Io dico esattamente il contrario: possibile che di migliaia di bibliotecari pubblici e accademici ci siano pochissime eccezioni che vanno su comunità importanti di co-creazione della conoscenza? Io credo che dovrebbero aumentare, dovrebbe essere una cosa sistematica, ma questo non vuol dire (nè l’ho mai pensato) buttare all’aria i servizi precedenti.
    Il punto 2 è vero, ma, come sopra, non ragioniamo con la logica “tutto o niente”: dire che il digitale non è tutto nella vita è sensato, inferire che dato che non è tutto ALLORA non è niente è del tutto insensato. Ci sono telefonini connessi a internet quasi in ogni mano del globo (es. http://dazeinfo.com/2014/01/23/smartphone-users-growth-mobile-internet-2014-2017/), internet è nella vita quotidiana di miliardi di persone, questo è semplicemente un dato di fatto.
    Per il punto 3: non vedo come dovrebbe “mettere in discussione” lo spirito del messaggio di Lankes (“parla con la tua comunità”), dato che lui stesso nell’Atlas discute della neutralità, dei valori del bibliotecario, della libertà di parola. I bibliotecari troveranno il modo di risolvere lo scontro con “La manif pour tous” con e senza Lankes, figurati se questo è il problema.

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  14. «Quindi ogni affermazione “i bibliotecari devono / non devono fare questo e quello” include questa irrealistica semplificazione» (Enrico Francese). È esattamante uno dei grandi punti deboli di Lankes: parlare in maniera estremamente generica sia di biblioteche (come se non fossero da tantissimo tempo diverse per mission, utenti, servizi ecc.) sia di bibliotecari. Purtroppo non è l’unica semplificazione ed è contagiosissima. Come si vede anche da questo post, che pone interrogativi che ricalcano sempre questa impostazione.

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    1. In realtà, io sono molto d’accordo, e sono pure d’accordo che sia uno degli errori fondamentali di questo post, che parla di bibliotecari al generale. Quindi, è vero, mi sono espresso male. Però ho già spiegato nei commenti che non intendo che *tutti* i bibliotecari *domani* finiscano su StackOverflow. E, tenendo questa utile e importante distinzione a parte, e per evitare tutte le volte di fare dei distinguo , uno usa il termine “i bibliotecari”, per farsi capire, per elaborare un ragionamento, per esprimere ipotesi e opinioni. Il fatto è che *nessuno* sa quali bibliotecari potrebbero fare una cosa e quali non potrebbero, e secondo me è sbagliato dividere acriticamente in “accademici” e “pubblici”. Ogni bibliotecario, in base al suo ruolo, lavoro e compentenze, potrà trovare il suo spazio.

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  15. Un’altra domanda che estende quella di prima, in cui ti chiedevo secondo te in che cosa differiscono I siti SE dai forum “di una volta”. Un altro tipo di piattaforme che mi viene in mente sono I social accademici: academia.edu, researchgate, ecc. Li conosci, li hai frequentati? Cosa ne pensi, alla luce del discorso che fai nel post?

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    1. Li conosco molto poco. Di suo, non sono entusiasta del fatto che Academia.edu si *pigli* il copyright dei paper che ospita, lo ritengo decisamente anti-Open Access. E’ yun fatto però che un posto unico e “social” sia la risposta effettiva ed efficace a quello che il movimento OA ha provato a fare in questi anni senza successo: dividendo in tanti archivi distinti (istituzionali o disciplinari) cose che potevano tranquillamente stare insieme. Purtroppo le università sono pachidermi difficili da far lavorare insieme, per cui un soggetto privato sta vincendo questa battaglia.

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